È stata la più grande manifestazione a seguito dell’insediamento di un nuovo presidente degli Stati Uniti.
Era una giornata nuvolosa, con una sensazione di pioggia sospesa.
La gente ha iniziato a raggrupparsi al Judkins Parc: migliaia di persone con cappelli di lana rosa o cerchietti con le orecchie da “pussycat”, una gattina dalle mille connotazioni, a ricordo della raffinata uscita di Trump sulle donne.
La fiumana di manifestanti sembrava inesauribile. Il parco si è riempito nella prima mezz’ora, il palco principale era inavvicinabile. Erano stati allestiti altoparlanti ovunque, di modo che tutti potessero ascoltare i discorsi di apertura.
Al primo “Goodmorning Seattle!” i miei timpani hanno vibrato per l’irruzione, lo sbalzo d’aria simile al passaggio di un treno merci. Poi il ronzio si è attutito, accarezzato dalla ripetizione dello slogan “And here we rise!”, e qui risaliamo. Perché effettivamente il fondo era stato raggiunto col botto e un sonoro impatto sul sedere.
Hanno parlato rappresentanti di associazioni umanitarie, professionisti, donne appartenenti a minoranze etniche o religiose, CEO di aziende, persone toccate, chi più chi meno, dalle recenti elezioni. Erano una voce unica e appassionata che faceva rimescolare lo stomaco. Risvegliavano quel grumo di orgoglio che si nutre di rispetto e speranza, quello che ti fa sentire parte di una comunità, indipendentemente da qualunque fattore distintivo.
C’era una rabbia feroce, l’esasperazione di un progetto fallito, di desideri infranti e attese insoddisfatte.
Eppure, se ti fossi svegliato all’improvviso sudato e febbricitante, chiedendoti: “Qual è il senso della vita?”, sarebbe bastato guardarsi intorno.
Avrei potuto chiudere gli occhi, librarmi come uno spirito sulla folla, planare insieme alle aquile che sorvolano spesso i cieli di Seattle.
L’umanità intera aveva scelto un praticello con qualche albero spoglio e vialetti cementati per manifestarsi ed esprimere la propria forza.
Forse erano le zaffate di marijuana a indurmi in questi pensieri shamanici, ondate dolciastre che invadevano il naso a momenti alterni. I figli dei fiori sono creature sempreverdi e onnipresenti, in fondo.
Ho camminato per 5 Km, dal parco fino allo Space Needle, l’edificio-simbolo di Seattle. Ho trascorso un’ora ferma a un incrocio senza capire perché, col solo passatempo di leggere le centinaia di striscioni e cartelli. Avrei potuto trascorrerne altre due senza annoiarmi.
Ho desiderato ardentemente strizzare le guance a un bambino posseduto dal demone del rap, mentre i genitori schioccavano le dita a ritmo.
Ho lasciato una strada priva di cartacce e lattine alle mie spalle, continuando a girare la testa incredula.
I diritti delle donne sono i diritti umani, i diritti di tutti.
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