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Storia di una Grammar-nazi

Grammar-nazi

Narra la leggenda che quando mia madre, in dolce attesa di me medesima, fece la sua prima ecografia, chiese, tutta emozionata:

– “Mi dica, dottoressa: è maschio o femmina?”
E l’ecografista rispose, con tono dolente:
– “È una bambina, signora. E, per maggior disgrazia, è pure una Grammar-nazi“!

Ebbene sì. Una tristissima grammar-nazi, una cultrice – cioè – della perfezione e precisione grammaticale.
Grammar-nazi, diciamolo subito per i non addetti ai lavori, non si diventa: si nasce.
Ed io, modestamente, lo nacqui.

Mentre gli altri poppanti si dilettavano nella lallazione, nei primi gorgheggi e nelle paroline iniziali “mam-ma”, “pa-pà”, io niente.
Zitta. Muta. Tombale più di un epitaffio o di un condono.
Succhiavo il mio biberon e… tacevo.
Non un verso. Non una sola sillaba.
Silente.
Non pronunciai una sola parola fino ai tre anni, quando, passando in auto con i miei genitori da Corso Sempione, a Milano, non vidi giganteggiare, attraverso il finestrino, l’insegna di una famosa casa farmaceutica.
La riconobbi e, nel silenzio più totale, aprii la bocca e pronunciai, senza alcun difetto né accentazione errata, la mia prima parola: “Tachipirina!
Mamma e papà si guardarono atterriti.
Era la prima avvisaglia della terribile patologia di cui erano stati edotti al momento della mia nascita: la grammarnazicità.

Dai tre anni fino ai sei anni ebbi un solo obiettivo nella mia vita: leggere.
Leggevo sempre.
Leggevo in ogni condizione di luce, anche in penombra e spesso al buio.
Leggevo e rileggevo tutti i libri che trovavo in giro, soprattutto Il Giorno, che era il quotidiano preferito di mio papà e il ricettario di Suor Germana di mia mamma, con tutte quelle strane istruzioni, descrizioni e preparazioni, oltre a quelle decine di attrezzi e aggeggi magici: la Schiumarola, la Pentola a pressione, il Tritaverdure. Li adoravo proprio.
Leggevo la composizione degli shampoo, dei bagnoschiuma, delle confezioni di merendine, di biscotti…
Leggevo anche libri da adulti, cose complicate di cui non capivo bene la trama ma il mio solo obiettivo era quello di districarmi tra le mille insidie della nostra favolosa e complicatissima lingua: l’italiano.
Il mio percorso nella scuola dell’obbligo fu tutto un inno all’eccellenza.
Massimo dei voti, sempre. Speciali menzioni. Onori e applausi a scena aperta. Ma non riuscii a farmi una sola amica, non potei condividere nessuna esultanza con compagni di classe o conoscenti.
Tutti mi schivavano e mi tenevano ad un tiro di schioppo.
Perché, direte voi? Ovvio, per la mia dannata, patologica e incontrollabile tendenza a correggere in diretta ogni espressione, frase e parola pronunciata al di fuori e aldilà del suo giusto contesto.
Congiuntivi, subordinate, accenti, frasi gergali e – omioddio – espressioni dialettali. Verbi transitivi che non transitavano, terze persone del condizionale non coordinate con il soggetto, accenti confusi con gli apostrofi… nulla mi sfuggiva e tutto doveva essere gentilmente ma fermamente sottolineato.
Da qui, la mia forzata e progressiva eliminazione da ogni giro, compagnia, iniziativa e festa sociale. Diventai una solitaria. Mi chiusi in casa.
Mi abbonai alla Settimana Enigmistica: passavo il tempo risolvendo tutti i Rebus, i Lucchetti, gli Anagrammi e persino il Bartezzaghi. Qualsiasi cosa – purché riguardasse la Sacra Lingua Italiana – mi coinvolgeva e mi assorbiva all’inverosimile.

Diventai una Devota della Crusca.
Finché nel mio microcosmo, come nel resto del mondo, dal nulla e di punto in bianco, non si accese il primo pc.
Da lì, presero avvio le prime forme embrionali di comunicazione online.
E da questi piccoli alvei si svilupparono, con una velocità impressionante, i social: Facebook, Twitter, Tumblr, Ask, Instagram…

Inizialmente, non volevo crederci. Non potevo. Mi rifiutavo di prendere sul serio quella massa rotolante e stridente di lingua italiana, deformata e malridotta, violentata e improvvisata dai miei connazionali in quel non-luogo fisico ma mentale e pervadente che stavano diventando i social.

I ““, i “ke kosa“, gli “o capito“, i “scendi il cane che lo piscio“… tutto questo mi trapanava il cervello peggio di una tempesta di fuoco, sconvolgendo il mio già fragile equilibrio e portandomi sull’orlo di un abisso di nera e totale dissoluzione.
Finché, sempre sui social, proprio nel momento più buio e ad un passo dal suicidio, non iniziai a notare che alcuni utenti, spesso identificati da nick-name anonimo, svolgevano con serietà e costanza un compito ardito e oltremodo salvifico: correggere metodicamente ogni errore, refuso, svista o bagatella scritta sul web.

Insomma, scoprii di non essere l’unica, triste e solitaria, Grammar-nazi del pianeta, ma di appartenere ad una genìa molto più nutrita.
Non ero un brutto anatroccolo, insomma. Non dovevo annullarmi, azzerarmi, zittirmi. Dovevo e potevo urlare anch’io – come tanti altri – la mia grammarnazicità occulta.

E così, proprio oggi, ho fatto outing.
Ho acceso il mio PC.
Mi sono concentrata.
E ho digitato, senza alcuna esitazione e accentazione errata:

E.T. TELEFONO CASA“[:]

Arianne Lapelouse

Giornalista professionista, mamma e imprenditrice. Osservo il mondo con curiosità. Sono una lente a contatto. Morbida.

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Arianne Lapelouse

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