malaria Lagos
Tutto è iniziato con un leggero giramento di testa, una cosuccia da niente, soprattutto se fuori ci sono 35 gradi, un’umidità del 95% e tu sei reduce dalla sorveglianza all’intervallo di un gruppo di scalmanati ragazzini che si rincorrono (e ti rincorrono) nel cortile della scuola.
Poi il giramento di testa si è magicamente trasformato in uno stato pressoché continuo di confusione mentale: del tipo che apri il frigo, convinta, e ti ritrovi a fissarne gli interni con sguardo bovino. Chissà che cercavo?! Ah, già, il vocabolario di italiano.
Ecco, lo ammetto: per qualche giorno ho avuto la forte tentazione di incolpare gli studenti del mio malessere, mentre l’evoluzione dei malanni mi portava a trascinarmi per i corridoi, a tenere lezioni di storia sulla prima guerra mondiale parlando delle epidemie che hanno falcidiato i soldati al fronte, a comporre tracce per il tema in classe del tipo “Se una tua insegnante stesse collassando, tu come ti comporteresti?” e amenità del genere.
Infine il tracollo. Lunedì pomeriggio, arrivata a casa, mi sono messa a letto con la netta sensazione di essere appena stata investita da una mandria di mucche.
Per farla breve, martedì mattina mi sono fiondata alla clinica da cui io e la mia famiglia siamo in cura per fare gli accertamenti del caso.
Ora, chiunque sia abituato a lamentarsi della sanità italiana, dovrebbe prima provare a farsi curare in Nigeria. Dico sul serio.
Le code? Un’attesa di ore solo per farsi misurare la febbre sono la norma.
La privacy? Mi è già successo di essere visitata mentre accanto a me, su un lettino, un paio di infermiere medicavano una ragazza a cui si erano infilate delle schegge in un piede.
Dottori poco chiari nella diagnosi? Provate voi ad esprimervi in un inglese stentato con un dottore bulgaro! Una volta mi è persino capitato di dover “recitare” i miei sintomi. Non scherzo. Ho iniziato a colpirmi il petto e a fingere di dover espettorare una palla di pelo. Se mi avessero visto quelli di Nollywood, mi avrebbero di sicuro dato una parte in qualche soap opera nigeriana.
Ma il bello deve ancora venire.
Lagos è una città a maggioranza cristiana e, si sa, dove non può l’uomo, è opinione comune che ci pensi qualche forza soprannaturale. Così molte cliniche hanno il nome di un santo. Abbiamo un “Saint Nicholas“, un “Saint Francis“, un “Saint Luis “, ma per i casi veramente disperati è meglio rivolgersi un po’ più in alto.
Altrimenti sarei dovuta andare a chiedere asilo all'”Ave Maria“.
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