Quando finisce una storia d’amore, presto o tardi il sogno di tutti è poter dire alla persona un tempo amata:
- Quanto si sta bene adesso senza di lei.
- Quanto si sta male adesso senza di lei.
- Quanto meravigliosa sia la persona che ha preso il suo posto.
- Dove diavolo ha fatto sparire il cuore dell’Oceano, che valeva una fortuna.
Se però è finita davvero male, l’altro/a non risponderà al telefono, oppure tu non avrai il coraggio di chiamarlo/a.
Eppure esistono persone che hanno il privilegio di poter dire all’ex tutto quello che pensano, senza dover scrivere pietosi status su Facebook finto universali ma in realtà smaccatamente ad personam, e senza aspettare di bere sette rum per trovare il coraggio di un melodrammatico whatsapp, che il giorno dopo fingerà essere partito per sbaglio.
Queste persone sono i cantanti pop.
Regina incontrastata del raccontare tutte le sue storie d’amore finite male è Adele, che ci ha costruito su uno zuccherosissimo impero.
Per carità, voce super bella e linee melodiche super ruffiane, ma non si può nascondere che le sue canzoni siano un periglioso incrocio in salsa anglosassone tra il melodrammone alla Baglioni e la sfiga cosmica alla Masini.
Nella categoria Canto per tutti ma parlo col mio ex, un posto d’onore è riservato a Hello, brano del 2015, vincitore di Brit e Grammy Award, la cui perfidia credo sia sfuggita a molti.
La storia, presumibilmente, è questa.
Adele e il suo bello stavano insieme da un po’.
Lei, a una certa, deve aver fatto qualcosa di imperdonabile, tipo:
stampargli in fronte un paio di cornine muschiate così ben ramificate che lui si è risvegliato cervo a primavera,
dire senza alcun ritegno alla madre di lui che il suo polpettone della domenica era francamente immangiabile,
stirargli la sua maglietta preferita dal dritto rovinando irreparabilmente la stampa di Spongebob.
Comunque sia, lui ha sofferto come un cane, mentre lei continuava a girare il mondo in tour e a collezionare copertine, senza mettere più piede nella sfigatissima città in cui avevano vissuto insieme. A una certa, risalita in camera dopo un concerto in California, mentre si annoia a bestia, inizia a pensare qualcosa tipo: “Quanto rompo un po’ le balle a quel pover’uomo che niente niente si sarà ripreso dallo smacco delle cornine muschiate che gli ho confezionato”. E decide di chiamarlo.
A CASA.
Ora, sarà almeno dal 2003 che nessuno chiama nessuno a casa.
Nemmeno la nonna ti chiama più a casa. Nemmeno la prozia che a Natale porta una ciotola di insalata russa dal ‘96, ti chiama più a casa.
C’è solo una persona che può chiamarti a casa a qualsiasi orario: l’operatrice di call center delocalizzata a Tirana che vuole estorcerti un cambio operatore.
‘Sta cosa che Adele chiama il suo ex a casa, dunque, è chiaramente una paraculata pazzesca.
E quello, che ha sempre in mano lo smartphone perché è un patito di Candid crash saga, è online su Facebook diciannove ore al giorno e posta quotidianamente dalle 12 alle 26 foto su Instagram, al telefono di casa non risponde mai.
Ma Adele, che pure alla terza telefonata senza risposta qualche domanda in proposito se l’era fatta, finge di ignorare questo fatto notorio e canta: “alla fine posso dire di aver provato a dirti che mi dispiace di averti spezzato il cuore, ma non importa, tanto è chiaro che tu non sei più a pezzi” e lo dice con una certa stizza, tra l’altro.
Perché se davvero l’aveva tanto amata, poteva almeno tagliuzzarsi due venuzze, mandare giù un paio di barbiturici, tirarsi un colpo di pistola a salve.
No, niente.
Solo decorso silenzio e telefono che squilla a vuoto. Questo surplus di egocentrismo mascherato da telefonata amichevole rende improvvisamente insopportabile Adele.
E siccome noi non ci stiamo a mandar giù queste viltà unilaterali senza diritto di replica, ecco la risposta che il povero ex di Adele non ha mai avuto la possibilità di darle.
Ciao, sono io.
Mi stavo chiedendo se la smetterai mai di chiamare a casa a ogni ora del giorno e della notte con la scusa che sei in California, c’è il fuso e c’hai il jetlag.
Io mi alzo ogni mattina alle sette e vado a lavorare a una scrivania, quindi, per favore, le mie otto ore di sonno fammele fare.
Detto questo, ora ti spiego che cosa ho fatto negli ultimi due anni, mentre tu ritiravi premi qua e là e giravi il mondo canticchiando quanto stessi male per me.
Per prima cosa ho rimosso tutte le pagine dei giornali dalla mia Home di Facebook, perché c’eri sempre tu.
Poi mi sono fatto l’abbonamento su Spotify: non potevo più ascoltare la radio perché, indovina? C’eri sempre tu.
Ho anche smesso di guardare Sky il giorno in cui hanno dato uno speciale sul tuo concerto all’arena di Verona.
Gli amici sono stati attenti a non parlarmi mai di te, ma la ragazza che viene ad aiutarmi con le pulizie a casa, che non sa nulla di noi, un giorno si è messa a canticchiare Rolling in the deep mentre passava lo straccio, e io ho cominciato a piangere come un cucciolo di orso che si sveglia dal letargo prima di mamma orsa e non sa come cavarsela nel mondo.
Lì ho capito che avevo bisogno di una mano, soprattutto per quella strana metafora sugli orsi che mi era venuta in mente, e sono andato in analisi.
Il dottore mi ha aiutato a riprendermi, con qualche frase azzeccata e ottanta euro a settimana.
Sospetto di essere guarito in fretta più per gli ottanta a settimana che per le frasi azzeccate.
Poi, una sera, dopo la palestra a cui mi ero iscritto perché l’inappetenza mi stava facendo perdere massa muscolare, ho conosciuto una ragazza carina, simpatica e dolce, e abbiamo iniziato a uscire insieme.
Adesso che lei sta pensando di portare le sue cose da me, tu hai preso a stalkerarmi al telefono. Forse, in qualche modo da strega che non si può spiegare a parole, sei riuscita a capire che mi vedevo con un’altra, e un po’ ti rode.
Falla finita, per favore.
Sto bene, sono felice e non sento la tua mancanza.
P.S. Il tuo ultimo disco è una lagna pazzesca. Prova a essere felice anche tu, una volta ogni tanto. Così, per vedere l’effetto che fa.
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