Una serena e calda giornata di gennaio, qui a Lagos. La nostra scuola ha organizzato una gita un po’ particolare: si va a Badagri, ultimo comune nigeriano prima del confine con la repubblica del Benin.
Oggi è una tranquilla cittadina di qualche migliaia di abitanti, che vivacchia di quello che può, ma fino a qualche secolo fa era un centro rinomato e tristemente famoso per essere uno dei luoghi più importanti dai quali partivano gli schiavi alla volta delle Americhe. Il viaggio si svolge via laguna, approfittando di un battello gentilmente offertoci dai genitori di un nostro ex studente. Con una traversata di circa due ore, si raggiunge la meta.
La prima sorpresa è scoprire quanto la gente qui sia accogliente. Noi siamo abituati alla grande città, dove sei uno dei tanti, ma qui è tutto diverso. Ci salutano, anzi, si sbracciano per salutarci, si avvicinano curiosi per sapere cosa siamo andati a fare, ognuno si offre per accompagnarci. Noi, previdenti, abbiamo già contattato una guida locale e qui c’è la seconda sorpresa: il nostro referente è un giovane omone dalla faccia simpatica, che ci accoglie con un sorriso coinvolgente e che ci svela con malcelata soddisfazione che sono ore che ci aspetta, perché non sta più nella pelle. Da qui capiamo che non sono in molti a curiosare in questi luoghi e questo è un vero peccato.
Dopo una sosta doverosa ad ammirare la residenza del re di Badagri (istituzione ancora presente ma solo in funzione cerimoniale) ci addentriamo tra le case, dove un gruppo di persone ci intrattiene con uno spettacolino improvvisato di tamburi.
Sorridono spesso qui, anzi, a volte ridono pure. Di noi, certo. Del resto siamo un gruppo abbastanza strano. Sembriamo dei turisti, ma siamo silenziosi, per nulla arroganti e non chiediamo nulla. Siamo venuti per ascoltare, per conoscere. Ridono di noi, ma non c’è nessuna malizia.
Il passato e il presente qui si mescolano in modi bizzarri. In un cortile c’è la tomba del primo europeo che ha introdotto la tratta a Badagri: si tratta di un olandese, sconosciuto ai libri di storia, ma di cui tutti qui capiscono l’importanza. Il nome? Non l’ho capito, sinceramente.
Mi ha colpito quello che hanno segnato sulla lapide: il termine con cui loro lo ricordano è in lingua yoruba e significa “Colui che è sceso dalle navi sorridendo”. E ci credo che avesse da sorridere! Si sarà anche sfregato le mani quando ha capito il potenziale umano che avrebbe potuto sfruttare!
I ragazzi della scuola intorno a me sono stupiti:” Ma come, questo è stato un negriero della peggior specie e gli hanno fatto una tomba in mezzo alla città? Manco fosse un eroe?” .
E qui si apre il capitolo delle contraddizioni.
Questo signore, che per tutta la vita si è arricchito commerciando in vite umane, ha dimostrato di essere un ottimo business man, ha saputo circondarsi di leccapiedi che si sono a loro volta arricchiti e, tutto sommato, ha portato una forma di benessere per il paese. Noi rimaniamo perplessi, ma continuiamo la nostra strada verso le altre tappeproposte dalla guida.
Passiamo attraverso diversi musei, che raccontano storie raccapriccianti di schiavi tenuti in cattività in attesa dell’arrivo delle navi, di merci di poco valore scambiati con vite umane, di ex schiavi tornati a schiavizzare a loro volta altri sfortunati come loro. Il tutto condito dai sorrisi della gente.
Alcuni scherzosamente ci dicono di essere a loro volta schiavisti, fanno allusioni al fatto che potrebbero facilmente rivenderci. Il passato che si mescola al presente, come dicevo prima. Ci scherzano su, ma è evidente che non se lo sono ancora tolti di dosso, questo passato. E come potrebbero?
Il segno del passaggio degli schiavisti è tutto intorno a noi. Per terra, in un cortile, ci sono due vecchi cannoni. La guida ci dice che ognuno di essi, ai tempi della tratta, valeva all’incirca 100 schiavi.
Al museo ci sono pochi rimasugli di questi oggetti di contrattatazione: ombrelli, specchi, vasellame in ceramica, bottiglie di gin. Ognuno di essi è il simbolo di quanto poco valesse la vita umana.
Continua il nostro viaggio.
I nostri passi si sono fatti più pesanti.
Sarà il caldo, davvero opprimente, ma la sensazione è che questo passato ci abbia in qualche modo coinvolti. Arriviamo sull’isola dalla quale partivano effettivamente i carichi di schiavi. Il battello ci lascia al molo: da lì alla costa ce la dobbiamo fare a piedi, sulle orme degli schiavi.
La guida si ferma sotto un albero (un po’ di ombra non guasta).
Ci guarda e ci dice una frase che difficilmente dimenticheremo:”State per camminare sulle orme della storia, ma appena metterete un piede su questo sentiero, anche voi diventerete parte della storia”.
Così ci incamminiamo, su un sentiero tracciato nella sabbia. Sono le due del pomeriggio. Il momento più caldo della giornata, ma nessuno di noi si lamenta. Abbiamo appena sollevato alcune delle catene conservate al museo, ne abbiamo tastato la robustezza, immaginato il senso di angoscia di chi le ha indossate per tutti quei chilometri.
Una lapide ricorda che stiamo camminando sul sentiero chiamato “Punto di non ritorno” , sul quale hanno camminato per centinaia di anni uomini e donne, verso una destinazione sconosciuta.
A metà strada, come un miraggio, una tettoia in lamiera offre riparo a chi vuole attingere al
pozzo sottostante. La guida però ci avverte che anche questo pozzo appartiene alla storia. Da qui gli schiavi attingevano un’acqua particolare, che aveva la proprietà, secondo la credenza comune, di donare l’obblio. Gli schiavi erano obbligati a berne, per poter affrontare la parte del cammino che ancora restava senza rivoltarsi contro gli schiavisti.
La leggenda dice che, non appena arrivati in America, l’effetto dell’acqua svanisse e che tutti gli schiavi improvvisamente prendessero coscienza di ciò che avevano lasciato. Oggi il pozzo, seppur funzionante, è inutilizzato. I bambini dell’isola, che la storia la conoscono bene, lo ritengono un luogo da cui stare lontani.
Qualcuno di loro, più coraggioso, ci butta dentro delle pietre. Come a ribadire il fatto che quell’acqua non si deve bere. Che la memoria è importante, a volte è l’unica cosa che ci resta.
Arriviamo all’oceano. La brezza è rigenerante, ma le ultime storie che la guida ci racconta non ce la fanno godere del tutto. Proprio qui gli schiavi sopravvissuti ai rastrellamenti, alle celle microscopiche in cui venivano ammassati, alle percosse durante il tragitto, alle mille privazioni date dalla prigionia, incontravano per la prima volta il
mare. E che mare!
L’Oceano, con le sue correnti infide, con le enormi onde che si infrangono sulla sabbia, e, in lontananza, un enorme mostro che, da loro punto di vista, inghiottiva le piccole imbarcazioni che osavano avvicinarsi, compresi i passeggeri. Chissà quanti di loro avranno pensato di essere stati offerti in sacrificio a qualche divinità del mare! Del resto ancora oggi, in mezzo a Badagri, ci sono altari dedicati alle varie divinità animiste, spiriti che possono essere
benevoli ma che il più delle volte richiedono un alto prezzo per la loro benevolenza.
Ognuno di noi scruta l’orizzonte.
Davanti a noi, dopo migliaia di chilometri, ci sono le coste del Sud America. Giorni di navigazione, stretti gli uni agli altri nelle stive, soffrendo il mal di mare in aggiunta a tanti altri disturbi dati dalla prolungata cattività, dalla malnutrizione, dalle epidemie che inevitabilmente potevano scatenarsi a bordo di quelle che tutto erano tranne che comode navi da crociera. Rivolgiamo i nostri passi verso la laguna. Per noi il viaggio ha un
ritorno. La destinazione la conosciamo. Il futuro è incerto, ma dipende anche molto dalle scelte che ognuno di noi vorrà e potrà fare.
Ci sentiamo dei privilegiati? Certo. Ma più forte è la sensazione che oggi, forse per la prima volta, ci sentiamo umani, solidali con un’umanità a cui è stato negato tutto in vista di un profitto.
La guida non ha ancora finito il suo lavoro. Camminando fianco a fianco ci dice la sua opinione sui tanti che lasciano la Nigeria, attraversano il deserto, arrivano in Libia e si imbarcano per attraversare il Mediterraneo.
Il suo discorso è molto lucido e chiaro: si vede che ci ha pensato a lungo. Magari l’ha pure valutata come ipotesi, ma da come prosegue direi proprio di no. Per lui chi sceglie quel tipo di strada non fa altro che ripercorrere le strade degli antenati.
Chi vendeva gli schiavi ora svende se stesso. In nome di una maggiore libertà? No.
Qui sono ben consapevoli che l’Europa non è in grado di offrire gran che a chi arriva sui barconi.
Secondo lui i giovani che partono dovrebbero investire i soldi necessari al viaggio per studiare, per formarsi, per costruirsi un futuro a casa propria e contribuire a smentire una volta per tutte l’idea che la Nigeria sia una terra di poveri straccioni. Perché non lo è.
È una terra ricca e fiera, che ha molto da offrire ai suoi figli, sempre che essi capiscano una volta per tutte come liberarsi dalle ingerenze di chi li vuole solo sfruttare.
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