Da sempre, il polso dell’Italia e degli italiani si misura con il calcio.
La Juve e gli Agnelli, la loro ricchezza e la Fiat (quella che fu, quella che dava lavoro), il Milan e Berlusconi e la televisone privata e, ancora una volta il benessere, il potere, la ricchezza.
E poi c’è la Nazionale.
Quella felice che alza la coppa, quella che arriva, che arranca, sempre, ma alla fine (forse) riesce a passare il turno.
C’è la Nazionale che perde, che esce fuori dai giochi, come il ko di Renzi, come il Pd alle ultime elezioni di pochi giorni fa.
Il calcio ci rende italiani, il calcio ci fa “legare” e “litigare”, il calcio è, anzi era, il maschio sul divano che beve birra e urla e suda e sbraita per un gol fatto, o per uno mancato.
La Nazionale è, anzi era, la festa per la strada, la rabbia e la felicità che si sente, anzi, si sentiva, dalle finestre chiuse di casa mia, mentre tentavo di fare qualcosa di diverso dal guardare la partita, tanto, i vicini erano tutti sintonizzati ad alto volume quindi la ascoltavo come se ascoltassi la radio.
La Nazionale è, anzi era, la pizza di mamma.
La Nazionale oggi è il silenzio, dalla finestre chiuse di casa mia non si sente niente, neanche un lamento, ieri sembrava che gli azzurri non giocassero, l’astensionismo dal pallone ieri si è sentito.
Ma il calcio è lo specchio dell’Italia e allora, siamo fuori (solo dal campo?).
A giugno guferemo contro qualcuno o, i più buoni, avranno già scelto la nuova squadra del cuore.
O forse andremo in vacanza perché, alla fine, ci interessa ben poco di come andrà a finire.
Però… ma vaffanculo, va![:]
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