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La miseria del bello

In uno scorrere apatico di notizie, 2 immagini catturano totalmente la mia attenzione:


Armine Harutyunyan, modella di Gucci e

Marzieh Ebrahimi, vittima di un attacco con acido.

E in un colpo d’occhio, anzi 2, le categorie del bello crollano come bastoncini di Shangai.

Due storie lontane e diverse, due poli estremi di un filo elettrico che va in corto circuito alla domanda: ma cosa è bello?
Armine e Marieh hanno qualcosa di oggettivamente brutto insieme a qualcosa di oggettivamente bello ma la prima è oggetto di un efferato body shaming mentre la seconda raccoglie cuori e consensi.
Ma perché non perdoniamo ad Armine la sua bruttezza – o la sua – non canonica bellezza – mentre definiamo bellissima Marzieh con un viso deturpato dall’acido? Perché dietro al giudizio estetico c’è in realtà una visione del mondo, della vita e del nostro rapporto con essa.
Perché nel concetto di bello si nasconde in realtà una categoria esistenziale più che una categoria estetica.
“Ehi un momento, ma come fa una così [brutta] ad essere una modella strapagata di Gucci?”, ammettiamolo, è quello che ci salta immediatamente in testa nel vedere una sua foto.
“Ma perché lei ? e…perché non io ?! se può lei figurati io!” : è qui che si sfracella il nostro pensiero.
Non glielo perdoniamo ad Armine di essere famosa, strapagata e pure brutta, perché noi invece restiamo nella nostra normalità banale e anonima mentre l’ultima bolletta da pagare è ancora sul mobile dell’entrata di casa, in attesa.
Una brutta che ce l’ha fatta rimarca la nostra miseria di essere dove siamo, magari con speranze e sogni infranti e questo proprio non glielo perdoniamo o meglio, non ce lo perdoniamo.
Voglio dire, facesse la receptionist di un call-center, quelle si che devono essere brutte: inopportune ad ogni ora, martellanti e fastidiose come la sabbia nelle mutande. Perciò brutte, per forza, ci sta. Ma modella, dai, proprio no.
Una modella deve essere bellissima, lei deve rappresentare il mio sogno impossibile a cui puntare, a cui mi aggrappo per tollerare una quotidianità fatta di tanti fallimenti – anche di gioie, si sa, ma non è questo il punto.
Continuamente tesi verso un perfezionismo impossibile da raggiungere o, per lo meno, riservato a pochissimi.
Pertanto se non lo raggiungo non è “colpa mia”; una tensione che ci mantiene in vita senza mai poter raggiungere l’inarrivabile.
E’ per questo che la categoria del bello non è un giudizio estetico ma un giudizio esistenziale.
Il bello, in questo senso, mi racconta della vita e della mia vita.
Ma allora perché un viso deturpato dall’acido, difficile da guardare, suscita applausi e consensi? Non è anch’esso “oggettivamente bello e oggettivamente brutto”?
Quel viso racconta un dramma e suscita compassione e, in fondo, anche commiserazione.
Questo basta a far scattare il nostro afflato consolatorio e, in qualche modo, a renderle il torto subito. Perciò è bella, bellissima anche se – oggettivamente – non è totalmente bella.
Ma allora: quanto l’altrui miseria consola la nostra? Tanto.
E’ questo quello che dobbiamo dirci: dobbiamo avere il coraggio di scoperchiare i nostri ‘sepolcri imbiancati’, di guardare in faccia la nostra miseria, raccontarcela senza paura se vogliamo avere la forza di superarla.
Il bello estetico fatto di forme, colori, armonie, taglie e peso affascina lo sguardo e la mente, solleticando l’immaginario; ma il bello metafisico fatto si di armonia ma anche di giustizia, etica e di unione tra fisico e immateriale abbraccia insieme mente e cuore.
E’ per questo che la totalità del nostro essere si esprime meglio sull’immagine di Marzieh deturpata dall’acido mentre da il peggio di noi stessi su quella di Armine, tanto lontana dagli attuali canoni di bello.
Marzieh evidenzia la forza estrema, il coraggio di non mollare davanti al limite imposto dalla vita, dalla violenza di altri esseri umani.
E ci appare totalmente bella la sua estrema determinazione di non darla vinta a degli impostori.
Ma dovremmo vedere totalmente bella anche Armine, che ha coronato un sogno che sembrava irraggiungibile: top-model di Gucci.
Se solo facessimo pace con noi stessi e con la nostra miseria.
Se solo superassimo quel dogma di perfezionismo e bellezza nel quale schiacciamo e limitiamo l’immagine femminile, togliendole le infinite sfaccettature di imperfezioni che di fatto ne determinano la bellezza.
Ma poi, un dogma imposto da chi? E perché gli dovrei cieca obbedienza?
Ben vengano le provocazioni.
Portiamo pace in noi stessi, perché si sa, chi è in pace con sé stesso non riversa il proprio limite sugli altri. L’altro non è la causa della nostra miseria, l’altro può essere lo specchio della nostra bellezza, il Vetril della nostra anima.
A questo punto vorrei proprio vedere la foto del fidanzato di Armine: e metti che sia unostrafigodellamadonnasantissima!
Sarà un’altra storia quella li.

Licia Sangilli

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Licia Sangilli

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