I fatti, realmente accaduti, di cui si narra in questo breve racconto, si svolgono a Buonconvento, ameno paesino della campagna senese, ai tempi della seconda guerra mondiale e hanno come protagonista la mia nonna paterna, Giustina Borgogni detta Ida, sposata Civitelli, una donna che credeva in Dio, votava PCI e non aveva paura nemmeno del diavolo.

Ida abitava in due stanze affacciate su una piccola piazza che la gente del posto chiamava “il Poggio”. La “Casa del Fascio”, dove si riunivano i camerati del paese e dove venivano convocati gli oppositori per dar loro la nota cura a base di manganello ed olio di ricino, era stata spostata li vicino e fu così che, dall’oggi al domani, tutti i pomeriggi verso le sei, i fascisti cominciarono a passarle sotto le finestre marciando e cantando a squarciagola:
“Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicinaaaa!”.

La prima volta, Ida impreco’ sottovoce e a finestra chiusa:
“Accidentatachividafiato, speriamovoiunnarriviadomattina, Diounvidiamaibene !”.
Il giorno dopo, alla solita ora, eccoli di nuovo:
“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezzaaaa!”.
Ida alzò la voce, sempre a finestra serrata:
“Diounvidiamaibene, accidentatachividafiato, speriamovoiunnarriviadomattina,!”.
Il terzo giorno, ridai:
“Duce, Duce che mai saprai morirrrrrr!”
Era troppo. Ida aprì la finestra:
“Speriamovoiunnarriviadomattina, Diounvidiamaibene, accidentatachividafiato,!”.

Da quel giorno in poi, la finestra rimase sempre aperta.
La faccenda era seria e non poteva essere ignorata.
Una mattina, Ida senti’ bussare gagliardamente alla porta. Una, due, tre volte e ad ogni colpo sembrava proprio che la porta si spaccasse in due . Alla quarta bussata, Ida la spalancò velocemente e un uomo tutto vestito di nero con gli stivalone lucidi e il fez di traverso precipitò in casa con quattro salti sversati, rischiando di infilarsi dritto nel camino che era proprio lì davanti. Quando si ricompose, Ida si accorse che era Gigi di Nacchero (nome di fantasia), suo amico d’infanzia con cui aveva condiviso una stagione a bottega dal sarto del paese, per imparare il mestiere.

“ Oh che è questo il verso di apri’ l’uscio?” gridò Gigi il fascista raddrizzandosi alla meglio.
“ Oh che è questo il verso di bussà?” rispose a botta Ida, per niente intimorita, la mano stretta sulla maniglia della porta e la porta volutamente spalancata.
“ Chiudi l’uscio, ti devo parlà ”, le disse Gigi il fascista, impettito.
“ Io l’uscio non lo chiudo”, rispose dura Ida.
“ E perchè?”, replicò l’uomo..
“Perché no!” disse Ida.
“ Fai come ti pare. Comunque, domani sera alle sette sei convocata alla Casa del Fascio” disse Gigi il fascista, gonfiandosi come un pallone.
E io ‘un ci vengo” rispose Ida, sempre con la mano sulla maniglia e la porta aperta.
“Come non ci vieni? E’ un ordine!”. Urlò Gigi il fascista.
“M’importa una bella sega! Io ‘un ci vengo. Se mi volete, venite a pigliammi voi! ”. Urlò Ida si rimando.

Gigi Il fascista rimase fermo, a gambe larghe con le mani sui fianchi e il mento alto e anche Ida rimase ferma, attaccata all’uscio e alla rabbia velenosa che le veniva fuori dallo stomaco tutte le volte che qualcuno faceva il prepotente.
Stettero cosi, uno di fronte all’altra, impettiti e muti, per un tempo che a Ida parve un’eternità.
Alla fine, le mani dell’uomo scesero rassegnate lungo i fianchi, le gambe si mossero appena e le spalle s’incurvarono leggermente:
“ Ascolta Ida- le disse- io contro di te non c’ho niente, siamo stati ragazzi insieme ma così non puoi continuà, lo capisci o no?”.
“Cosi come? ” rispose Ida, facendo la finta tonta.
“ Come come?!” si raddrizzò di nuovo Gigi il fascista “Tutte le sere quando si passa t’affacci alla finestra e imprechi…”
“E allora passate da un’altra parte” disse Ida, serafica.
L’uomo diventò rosso rosso, con le vene del collo gonfie e tirate e Ida pensò: “Se mi schianta qui lo volo giù per le scale e chiudo l’uscio quant’è vero Dio”.
Gigi Il fascista urlò:
“Noi si passa dove ci pare e te domani vieni alla Casa del Fascio!”.
“Io ‘un ci vengo, te l’ho belle detto e te lo ripeto!” rispose Ida secca e dura.
“E allora stai zitta! Zitta!”.
“Io zitta ‘un ci sto!”.
“E allora chiacchera, per Dio! Io t’ho avvisata, più di questo ‘un posso fa’!” urlò il fascista e uscì cercando con la mano la porta che Ida non aveva mai smesso di tenere stretta cosicché, nel tentativo di sbatterla, non ci riuscì e fece una specie d’improvvisa marcia indietro con i piedi che gli sdrucciolarono in avanti costringendolo a scendere le scale a salti nel tentativo disperato di non rompersi l’ osso del collo.

Ida sbattè l’uscio a tutta forza sperando che si scardinasse e finisse nella schiena dell’uomo. Poi volò alla finestra, l’apri e gli gridò dietro: “Ma i tu’ camerati lo sanno che PRIMA eri comunista? Perchè se tu ‘un te lo ricordassi, la tu’ tessera e ce l’ho sempre io ”.

Gigi Il fascista si blocco’.

Ida gli guardò la schiena e pensò: “Maremma cane, un c’avrà mica la pistola?!” e s’ abbassò d’istinto. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto… quando si rialzò, piano piano e fece capolino, il Poggio era vuoto.
“Accidentatachividafiato, speriamovoiunnarriviadomattina, Diounvidiamaibene !”, ripetè come si fa con l’Ave Maria, affacciata alla finestra.

La sera dopo i fascisti non passarono dal Poggio e nemmeno la sera seguente e quella dopo e quella dopo ancora.
“Era l’ora”, pensò Ida. E chiuse la finestra.[:]