Ore 15, circa.
Ci mettiamo in auto senza considerare i consigli della tv e delle previsioni sul controesodo da bollino nero.
Caldo. Io al primo giorno di ciclo, con dolori più simili a quelli di una colite.
Auto carica. Tutto infilato dappertutto. Aria condizionata forza 4, che è il massimo che la mia auto possa garantire. Musica a livelli mostruosi, per sovrastare il rumore della suddetta aria condizionata. Roba che un aereo in fase di decollo fa meno rumore.
Dopo una busta enorme di patatine e due taralli della più genuina tradizione molisana, ricevo l’ennesima conferma che mangiare senza ritegno non è un buon sostituto degli antidolorifici quindi non mi è passato il fastidio da ciclo, è svanita la soddisfazione da comfort food ed è rimasta solo la possibilità di pennica, con la guancia spalmata sul finestrino e la bocca aperta.
Sosta all’autogrill. Neon, fila nei bagni, fila alle casse, fila ai parcheggi, fila di parolacce mentali, casuali nel contenuto e nei destinatari, ma recitate con ordine: in fila, per l’appunto.
Si riparte. Autostrada quasi vuota e poi di colpo ingorghi incomprensibili.
“Da quanto tempo siamo a fermi a Arezzo?” Juan non lo sa.
Avremo detto 10 parole in 3 ore e, di queste, 8 riguardavano il cibo che avrei voluto, oltre alle patatine e ai taralli, e le altre 2 riguardavano l’intollerabile ingiustizia della non esistenza del teletrasporto che agevolerebbe gli spostamenti dell’umanità e farebbe respirare la Terra.
Sì, i rientri dalle vacanze noi li affrontiamo con utopie, silenzi e autogrill.
Dopo aver interrotto il mutismo da vacanze finite, siamo quasi arrivati a Pisa. La strada è dissestata, l’auto sobbalza senza delicatezza, così ricordo a Juan, con lo stesso impatto violento che ha l’auto sull’asfalto, che ho il ciclo e potrei innervosirmi per meno, molto meno.
Così Juan, che invece non perde mai il garbo, mi dice con grazia ma in dialetto molisano: “par ca la so fatta ji la strada Errì”. Ovvero: no, Juan non è responsabile della scarsa manutenzione della strada.
Come, del resto, non lo è dei miei dolori e dei miei sbalzi umorali da ciclo.
Ore 21, circa.
Finalmente a casa. Lasciamo l’auto con le 4 frecce, portiamo i 2 quarti del fabbisogno alimentare molisano per due piani di scale e entriamo.
La casa è pulita perché, in un frangente di lucidità, prima di partire, mi ero indaffarata a sistemarla. La temperatura è di 2000 gradi sopra lo zero.
Mentre Juan torna all’auto, per cercare di parcheggiarla a meno di due triliardi di chilometri da casa, io sistemo tutto alla velocità della luce e mi fiondo in doccia.
Apro l’acqua. Acqua che bramavo da sei ore, acqua che certe volte è l’unica cosa di cui hai bisogno.
Acqua che non esce.
Resto interdetta, cercando di capire se gli inquietnati rigurgiti che sento dalle tubature non siano in realtà provenienti dall’interno del mio corpo.
È un’opzione che preferirei se questo significasse potermi lavare.
Ma purtroppo no: sono i rumori dei tubi dell’acqua, acqua che ha deciso di non usicre.
Con il senso pratico e l’attitudine al problem solving di MacGyver, mi siedo e cerco di non crollare in un attacco di pianto mentre mastico chewin gum.
Arriva Juan e mi fa notare che masticare chewin gum non aiuta a riattivare le tubature, così come avevamo già stabilito che le patatine non fungono da antidolorifico e il teletrasporto non è una soluzione etc etc.
Così si attiva lui e mi dice che dobbiamo semplicemente aspettare.
Che, detto dopo 6 ore in auto, suona più doloroso di quanto non si possa immaginare.
Dopo un tempo che non ho saputo calcolare perchè ero impegnata a trattenere lacrime isteriche e insulti, torna l’acqua.
Mi fiondo in doccia come un disperso nel deserto che vede l’oasi.
Aqua nera, anzi marrone. No, bordeaux.
Mentre io cerco di catalogare il colore dell’acqua per un nuovo eventuale codice Pantone, interviene Juan: “Ruggine” sentenzia con garbo, sì, ma senza risparmiarsi qualche agghaicciante imprecazione che, in effetti, non serve ma certe volte, dai, aiuta.
Infatti, impegnandoci a imprecare insieme, a ritmo, alternando cori e assoli, è passato un buon quarto d’ora e l’acqua, oh, LIMPIDA.
Doccia io. Doccia lui.
Ore 23,circa.
Ok, dobbiamo cenare. Non abbiamo fame, è tardi ma c’è il panino con la frittata di mia madre. Quinidi, noi DOBBIAMO cenare.
Nella mia coscienza non c’è spazio per un panino con la frittata di mia madre sprecato.
Recupero il cibo e raccatto bicchieri e fazzoletti, per cenare sul divano, sì, ma con un attimo di umanità.
Entro in sala e vedo Juan armeggiare affannato su scatole, prese e cavi.
Sta montando la nuova Playstation 4, arrivata da poco.
Penso una serie di cose carine da dire per fargli capire che non è il momento ma non ci riesco. Ogni volta che provo a far uscire una parola vengono fuori ruggiti.
Juan intuisce subito la mia urgenza di cenare.
Guardiamo un film demenziale, unica e degna conclusione della giornata.
Io rotolo verso il letto, lui mi raggiunge dopo poco.
Ridiamo ancora un po’ del film appena visto, dei soliti casini con la casa e l’acqua e il parcheggio.
Più in generale, ridiamo del nostro viaggio insieme.[:]
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