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È pressappoco quello che accade a me quando ordino il caffè da Starbucks, se non fosse che il sortilegio si verifica anche a livello uditivo.
La mia forma cangiante getta fiotti di nebbia negli occhi dei baristi e li induce a pensare di avere a che fare ogni volta con una nuova cliente.
La conversazione si ripete ogni giorno negli stessi termini, eppure il risultato è lo stesso.
Nessuno mi riconosce. Ma soprattutto, nessuno riesce a cogliere le poche sillabe che compongono il mio nome.
Ma andiamo con ordine.
La competenza si è sviluppata con esercizio e volontà, inizialmente tentando di memorizzare i nomi di tutte le combinazioni possibili di latte e caffè. Un’impresa che sarebbe risultata impossibile anche ai sistemi informatici più complessi. Poi focalizzandomi sull’unica opzione adeguata. “Caffè americano”, una miscela più liquida che buona.
In fondo non considero il gusto una caratteristica essenziale del caffè. In questo credo che i miei geni italiani siano rimasti saldamente appigliati a quelli di qualche remoto avo celtico. Quello che non ho
Il rito per me è più importante del sapore. Il che mi fa pensare che l’avo in questione fosse qualche druido su un’isola sperduta che, durante gli auspici e non disdegnando un sacrificio umano, beveva un intruglio bollente per ritemprarsi dalla giornata.
A forza di tentativi ormai ho imparato la formuletta magica.
“A tall Decaf Americano, please”
“Tall” perché è la misura di base. Non ne esistono di più piccole, e in compenso le tazze più grandi sconfinano in una quantità che solo le torture dell’Inquisizione forzavano i miscredenti a tracannare.
Ormai penso all’Emicrania come a una creatura in carne e ossa, la materializzazione stessa dell’accidia. Una di quelle persone che penalizzano le gioie altrui con commenti taglienti e una lingua biforcuta. Probabilmente indossa una gonna a quadri con mutandoni felpati e un maglione che le copre ogni centimetro di pelle. Non ama il sole, i profumi sintetici e i picchi glicemici. In realtà, la sola parola “zucchero” le fa arricciare le labbra in un moto di disgusto. Si circonda di esseri noiosi e si compiace della propria virtù.
La formula ha dovuto arricchirsi progressivamente nel tempo.
Lo volevo con “room” o “no room”?
Ricordo ancora il mal capitato che me l’ha chiesto la prima volta, io che lo guardavo come se stesse facendo gli occhi strabici agghindato di piume di struzzo. “Room” non era la stanza per godermi il caffè in pace. Era l’eventuale spazio nella tazza: invece di riempirla fino all’orlo, il barista mi chiedeva se volevo che lasciasse un centimetro per poter aggiungere del latte extra.
E infine: “For here or to go?”. Che domande! “For here”, naturalmente. Nemmeno il druido dispensava i suoi auspici sacerdotali sorseggiando pozioni per la strada.
Per evitare questo inutile botta e risposta, ho collaudato a mia volta un’espressione rituale. Una parola come “precipitevolissimevolmente”, da dire tutta d’un fiato, non senza l’orgoglio di avere tra le mani una trovata geniale: “Atalldecafamericanowithnoroomforhereplease”.
Ecco. Provate a farmi un’altra domanda adesso.
“What’s your name?”
Sospiro, mentre loro sbattono le ciglia con aria innocente. Devono scriverlo sul bicchiere, in modo da individuarlo sul bancone quando è pronto l’ordine.
La nebbia mi avviluppa con le sue spire, i volti di mille clienti si sovrappongono al mio confondendo i sensi di chi mi guarda.
Non importa quante volte ho frequentato lo stesso numero esiguo di bar Starbucks. Non importa quante volte ho scambiato commenti sagaci sulla situazione metereologica, guardato negli occhi gli stessi baristi, risposto con le mie credenziali alla stessa fatidica questione.
Non sono più Silvia. Sono la Dea dai Mille Nomi. Con un upgrade aggiuntiva riguardo alle orecchie tappate.
Le proposte spaziano dall’onomastica esistente a quella fantastica delle terre di Tolkien.
Sheila, Cynthya, Celbia, Slyvia, Celia, Simmia, Cenia, Sibla sono solo alcuni degli esempi della mia natura mutevole.
E dire che la versione inglese “Sylvia” non è lontana anni luce. Ma tra la “i” e la “y” c’è un ponte traballante sospeso nel vuoto, un nesso che solo Indiana Jones riuscirebbe a cogliere senza precipitare.
“Il nome è un diritto!” potrei protestare a gran voce se la situazione, gradualmente, non avesse cominciato a divertirmi.
“Non importa” dico loro, “Scrivetelo come viene”. Come vi suggerisce il cuore, aggiungerei, se non sembrassi uscita da una telenovela.
Perché alla fin fine sono nel Nuovo Mondo. Posso decidere chi voglio essere o diventare. D’altronde se mi presentassi come Azzeccapuzzole otterrei la stessa reazione pacata, lo stesso sorriso cordiale.
Da quando sono arrivata ho la sensazione costante che all’America non importi un fico secco del mio passato. Invece è interessatissima ai miei progetti futuri. Tanto da farmi sedere un momento, il fiato improvvisamente compresso nei polmoni, a riflettere sul senso della vita. Un compito impossibile con un caffè privo di caffeina.
Menomale che ho scoperto uno snack al cioccolato ripieno di burro di noccioline.
Ebbene sì. Ho ceduto alla tentazione del peanut butter.
Chi l’avrebbe mai detto che, racchiuso nel cioccolato fondente, la sostanza giallo-senape subiva un passaggio di stato? Da mondano a sublime, da semplice sostanza vischiosa di un colorino orrido a delizia cremosa. Forse il segreto è il dolce che incontra una punta segreta di sale, oppure l’interruzione momentanea della dieta triste per un momento di puro peccato.
Ma vi garantisco che il risultato è assicurato. Da Starbucks ho riflettuto sulle opportunità, sul sogno americano e sui progetti, che ora cominciano a prendere forma.
E solo grazie al fatto che sono chi sono, a dispetto del mio nome.
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