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Perché la pioggia di Seattle è tenace, non molla. Non consente di dimenticare neppure per un secondo che siamo fatti d’acqua al 90%, e allora tanto varrebbe liquefarsi in una pozzanghera.
Potrei approfondire un tema interessantissimo sul grigio, ma temo diventerei come la pioggia.
Il rischio nei paesi acquosi è proprio questo. Ci si trasforma in quei vecchietti rimbambiti che gongolano delle proprie verità. Ah, la pioggia! Ah, il verde! Ah, il grigio!
Credevo di non aver mai visto tanta acqua, finché il presente non si è imposto con palpitante vivacità. Per smentirmi.
Il gabinetto era nuovamente otturato.
Tant’è che tutti i bagni che mi è stato modo di visitare, sono dotati di stura-gabinetto. Dal modello plateale in plastica a quello più chic in bronzo.
Inizialmente non ci avevo fatto caso: lo scolo intermittente delle grondaie copriva qualunque rumore.
Dal bagno però l’acqua aveva cominciato a fremere.
Quindi sono ricorsa all’unica arma in grado di fermare il tempo: l’urlo. Ho gridato con quanto fiato avevo in gola, un boato che ha planato sui rivoli, rimbalzato sulle piastrelle e scosso persino me stessa. Ho ripetuto gli sforzi vocali, alla rinfusa. Poi mirandoli al solo soccorritore pratico che mi veniva in mente: mio marito.
Mi è venuta in mente la favola del bambino che grida: “Al lupo, al lupo!”: tutte le volte che avevo lanciato allarmi per pericoli incombenti. D’altronde, cosa definisce un’emergenza? Se si dà retta all’etimologia, è qualcosa che emerge all’improvviso. Come va a finire non si sa, ma prevenirla nel momento in cui sboccia: quella è l’arte del lungimirante. Con gli occhi rivolti verso ipotetici futuri, io avevo individuato scenari apocalittici in un assortimento di tutto rispetto. Più volte.
All’ennesimo richiamo inascoltato, ho giurato che in futuro mai, avrei chiesto aiuto per cose meno importanti di un possibile affogamento in bagno. Sono corsa al piano inferiore, solo per scoprire che l’acqua gocciolava copiosa dai faretti del soffitto.
Di mio marito non c’era traccia. Ero sola, sola come l’ultima donna sulla terra.
Da un angolo recondito del cervello, ho estratto la forza di volontà per raccogliere un ammasso di asciugamani. Me li sono buttati sulle spalle come quando si parte per il fronte.
In quel momento ha suonato il campanello della porta. Un senso di speranza mi ha sopraffatto, forse era l’idraulico accorso telepaticamente.
Era un omino piccolo, davvero piccolo. Ho chinato lo sguardo per osservarlo, perché nella mia mente l’idraulico aveva spalle possenti e un aggeggio che poteva sturare la carta igienica del mondo.
Ci siamo fissati per un lungo istante, ognuno chiedendosi domande silenziose sull’altro. La sua aveva chiaramente a che fare con la pila di asciugamani che mi coprivano per metà.
Se non ho pianto, è solo per puro stupore. Non avevo ordinato nulla.
L’ho preso per le spalle e ho fatto ciò che ogni donna impara a fare in circostanze estreme. Ho implorato. “Help!”, ho detto come una naufraga dall’isola.
Non so come, ma l’omino si è impietosito. Un’italiana deficiente, tappezzata di asciugamani, non l’aveva mai vista. La poteva annoverare nel taccuino “bizzarrie della giornata”.
L’omino si è rivelato un concentrato di energia e praticità. In men che non si dica, nonostante il mio resoconto farneticante, ha preso la situazione in mano. Ha armeggiato col water e con lo stura-gabinetto, quello che avevo completamente scordato nel panico, compiendo mirabili acrobazie.
D’un tratto si è udito un risucchio terrificante, quello di un’onda che si ritira dopo un maremoto. Il flusso ha iniziato a scorrere al contrario, l’acqua a scendere visibilmente.
“Yes!” ho esultato, trattenendomi a stento dal battergli un cinque. Ma gli ho offerto un caffè, che ha rifiutato.
Da allora, il bagno è diventato una specie di santuario della moderazione. La carta igienica guardata con rispetto reverenziale.
Col trasloco, ci siamo lasciati alle spalle la spensieratezza e l’abbondanza da srotolata libera.[:it]
Perché la pioggia di Seattle è tenace, non molla. Non consente di dimenticare neppure per un secondo che siamo fatti d’acqua al 90%, e allora tanto varrebbe liquefarsi in una pozzanghera.
Potrei approfondire un tema interessantissimo sul grigio, ma temo diventerei come la pioggia.
Il rischio nei paesi acquosi è proprio questo. Ci si trasforma in quei vecchietti rimbambiti che gongolano delle proprie verità. Ah, la pioggia! Ah, il verde! Ah, il grigio!
Credevo di non aver mai visto tanta acqua, finché il presente non si è imposto con palpitante vivacità. Per smentirmi.
Il gabinetto era nuovamente otturato.
Tant’è che tutti i bagni che mi è stato modo di visitare, sono dotati di stura-gabinetto. Dal modello plateale in plastica a quello più chic in bronzo.
Inizialmente non ci avevo fatto caso: lo scolo intermittente delle grondaie copriva qualunque rumore.
Dal bagno però l’acqua aveva cominciato a fremere.
Quindi sono ricorsa all’unica arma in grado di fermare il tempo: l’urlo. Ho gridato con quanto fiato avevo in gola, un boato che ha planato sui rivoli, rimbalzato sulle piastrelle e scosso persino me stessa. Ho ripetuto gli sforzi vocali, alla rinfusa. Poi mirandoli al solo soccorritore pratico che mi veniva in mente: mio marito.
Mi è venuta in mente la favola del bambino che grida: “Al lupo, al lupo!”: tutte le volte che avevo lanciato allarmi per pericoli incombenti. D’altronde, cosa definisce un’emergenza? Se si dà retta all’etimologia, è qualcosa che emerge all’improvviso. Come va a finire non si sa, ma prevenirla nel momento in cui sboccia: quella è l’arte del lungimirante. Con gli occhi rivolti verso ipotetici futuri, io avevo individuato scenari apocalittici in un assortimento di tutto rispetto. Più volte.
All’ennesimo richiamo inascoltato, ho giurato che in futuro mai, avrei chiesto aiuto per cose meno importanti di un possibile affogamento in bagno. Sono corsa al piano inferiore, solo per scoprire che l’acqua gocciolava copiosa dai faretti del soffitto.
Di mio marito non c’era traccia. Ero sola, sola come l’ultima donna sulla terra.
Da un angolo recondito del cervello, ho estratto la forza di volontà per raccogliere un ammasso di asciugamani. Me li sono buttati sulle spalle come quando si parte per il fronte.
In quel momento ha suonato il campanello della porta. Un senso di speranza mi ha sopraffatto, forse era l’idraulico accorso telepaticamente.
Era un omino piccolo, davvero piccolo. Ho chinato lo sguardo per osservarlo, perché nella mia mente l’idraulico aveva spalle possenti e un aggeggio che poteva sturare la carta igienica del mondo.
Ci siamo fissati per un lungo istante, ognuno chiedendosi domande silenziose sull’altro. La sua aveva chiaramente a che fare con la pila di asciugamani che mi coprivano per metà.
Se non ho pianto, è solo per puro stupore. Non avevo ordinato nulla.
L’ho preso per le spalle e ho fatto ciò che ogni donna impara a fare in circostanze estreme. Ho implorato. “Help!”, ho detto come una naufraga dall’isola.
Non so come, ma l’omino si è impietosito. Un’italiana deficiente, tappezzata di asciugamani, non l’aveva mai vista. La poteva annoverare nel taccuino “bizzarrie della giornata”.
L’omino si è rivelato un concentrato di energia e praticità. In men che non si dica, nonostante il mio resoconto farneticante, ha preso la situazione in mano. Ha armeggiato col water e con lo stura-gabinetto, quello che avevo completamente scordato nel panico, compiendo mirabili acrobazie.
D’un tratto si è udito un risucchio terrificante, quello di un’onda che si ritira dopo un maremoto. Il flusso ha iniziato a scorrere al contrario, l’acqua a scendere visibilmente.
“Yes!” ho esultato, trattenendomi a stento dal battergli un cinque. Ma gli ho offerto un caffè, che ha rifiutato.
Da allora, il bagno è diventato una specie di santuario della moderazione. La carta igienica guardata con rispetto reverenziale.
Col trasloco, ci siamo lasciati alle spalle la spensieratezza e l’abbondanza da srotolata libera.
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