noi altrove

Emicrania: come curarla in America.

[:en]A me non sarebbe mai venuto in mente.

D’altronde quando ho mal di testa pensare è l’ultima delle attività a cui riesco a dedicarmi. L’emicrania ti proietta in uno stato di sospensione temporanea, simile a quella che deve provare l’ameba. Si esiste nel presente, assorbiti in una situazione di pura fisicità, dove ogni pretesto si trasforma in uno stimolo.

Divento un cuore pulsante, trascinato a forza. Non vedo, perché priva di palpebre. Non sento, perché tutto è rumore. Nel mio movimento ameboide, l’unica sensazione riconoscibile è la fatica. “Non essere” è terribilmente stancante, soprattutto in un ambiente che richiede un’interazione continua.

Mentre il proprio corpo terreno è esposto agli agenti atmosferici e agli inutili tentativi di conversazione dei vicini, il dolore agisce come una mucillagine collosa da cui è impossibile disfarsi.

Per questo quando il neurologo mi ha detto: “Potrebbe essere dovuta alla qualità del sonno”, mi sono limitata ad annuire.

Muovere la testa su e giù è uno di quei gesti che possono essere svolti quasi per inerzia, il collo a ciondoloni, schiudendo appena le labbra. Il risultato non è eccezionale, si passa giustamente per cretini, ma esprime l’assenso richiesto dal caso.

Una silhouette umana impregnata di gelsomino, forse la segretaria, mi ha fissato l’appuntamento da un nuovo dottore per il mese successivo, e io ho riposto il commento nel cassetto delle ipotesi. Volevo solo togliermi di torno, svuotare le narici dal suo profumo. Dimenticarmi che al mondo esistevano gelsomini, segretarie e dottori.

Certo, poteva essere il sonno. Il mese prima avevano suggerito la tiroide, quello prima ancora l’alimentazione, e via dicendo. Mancava ancora la connessione segreta con l’alluce valgo. Almeno questo problema pareva di facile risoluzione: avrei comprato lenzuola di raso e un omino dotato di un ramo di palma, pronto a sventolarlo nelle notti torride. Fresca e riposata, mi sarei buttata il problema alle spalle con una risata beffarda.

In fondo sono anni che sperimento rimedi alternativi. Dai litri di tisane fino a trasudare finocchietto selvatico, alla dieta del magone (senza pane, senza pasta, senza zuccheri), alla sconfinata branca di massaggi e riflessologia.

In questo tragitto alla scoperta del mio corpo, ho capito di non essere sola. Migliaia di donne come me sono impegnate ogni giorno nella stessa crociata, anche se non necessariamente animate dallo stesso obiettivo. Chi vuole ringiovanire, chi curare l’intestino irritabile, chi, ancora, raggiungere un equilibrio psico-emotivo in sintonia con le stelle.

Il concetto, in realtà, è lo stesso applicato dai monaci medievali che si autoflagellavano: più la pena corporale è punitiva, più si ha la sensazione che sia efficace.

Ma ogni volta è come voler agire sul fato. Imprevedibile e potente, ogni attacco di emicrania agisce in maniera indiscriminata, a prescindere dalle proprie azioni.

I più restii ad accettare l’evidenza sono proprio gli addetti ai lavori. Tant’è che con ostinazione mi rimbalzano come una pallina da ping pong dall’uno all’altro medico, frugandomi le vene del cervello alla ricerca del tesoro, prescrivendo farmaci dai nomi impronunciabili, esortandomi a stili di vita sempre più virtuosi. Perché, se c’è una verità che a questo punto mi è assolutamente chiara, è che l’emicrania in realtà è la coscienza.

Se rileggessimo Pinocchio con più attenzione, scopriremmo che il Grillo Parlante altro non era che una cefalea a grappolo. “Non far quello, non far questo!”, lo stuzzicava l’insetto agitando le antenne, ben sapendo che così non faceva altro che spingerlo nel precipizio.
Chiunque altro l’avrebbe schiacciato al muro con una pedata. Ma il burattino non poteva, perché a parlare era la moralità che lo preservava dal caos, dall’illogico, dal disordine.

A riprova di questa mia teoria, gli alcolici, il cioccolato, i formaggi grassi e il caffè sono nella lista delle cose da evitare, così come guardare la TV o il computer la sera, o farsi una scorpacciata di gelato dalla vaschetta.

Sono sicura che se ammettessi un giorno di avere un debole per Colin Firth e di apprezzare i calzettoni di lana d’inverno la lista verrebbe ampliata all’istante. “Si consiglia, signora, un’astinenza immediata da Colin. Meglio se a piedi scalzi”.

Quando mi sono presentata dal “dottore del sonno”, non sapevo bene cosa aspettarmi. Mi avrebbe fatto bere una pozione soporifera e legata a degli elettrodi?

Non proprio.

Mi ha fatto accomodare, spiegandomi in che cosa consisteva un’apnea notturna. Forse, ne ero affetta. Forse, se l’avessi scoperto, il Nebbiolo sarebbe tornato a me.

“Lei russa?” mi ha chiesto con aria professionale.

Ecco. Neppure l’amor proprio mi restava. Ma potevo sempre mentire, fingermi la Bella Addormentata. Ho ripiegato per un timido: “Forse”.

“Insomma, qualcuno gliel’avrà pur detto?”

Non mollava. Mancava solo la lampada accecante negli occhi.

“Effettivamente, mio marito ogni tanto mi dà un calcio.”

Al che si è illuminato, lo pupille tremolanti per l’eccitazione.

“Benissimo.”

Menomale. Avevo passato il test. Ora potevamo parlare del tempo.

“Ma in che modo russa?”

“Prego?”

“Ma sì, mi dica. Ora le faccio vedere…”

Ha chiuso gli occhi, l’aria serena di un bambino tra le lenzuola. Ha cominciato a emettere rumori intermittenti, delle pernacchie ritmate da brevi pause, anche abbastanza a tempo. Poi è rinvenuto d’un tratto: “Così?”

Lo guardavo, in silenzio. Incapace di proferire parola.

“Russa così?” mi ha incalzato. “Oppure in questo modo?”

È ripiombato nella trance. Questa volta la faccia di un adulto contrito. Produceva piccoli rantoli affannati. È andato avanti per una manciata di secondi, poi ha smesso.
Non emetteva un suono, non muoveva un muscolo. Oddio, stava trattenendo il fiato. Di lì a poco sarebbe svenuto e io non avrei saputo che fare, come motivare ai soccorsi che il dottore si era autoinflitto un’asfissia in mia presenza. A un certo punto è esploso in un grugnito mostruoso, accompagnato da un sobbalzo.

Poi, come se nulla fosse, ha ripreso l’aria da professore.

Ecco, questa è l’apnea. La respirazione si interrompe, i muscoli si irrigidiscono e una contrazione avverte il cervello della mancanza di ossigeno. Ma è un sonno disturbato, per questa ragione alla mattina ci si sente stanchi, o si possono avere le emicranie.”

La spiegazione teneva, ma la sua immagine mi aveva turbata profondamente. Non ero pronta per pensare a me stessa in quei termini.

Il dottore mi ha consegnato un kit a domicilio, un aggeggio con fili e tubicini colorati da utilizzare la notte. Avrebbe registrato ogni mio soffio, consegnando ai posteri la verità.

D’accordo, ero pronta a lasciarmi monitorare. Ma volevo essere certa che ne valesse veramente la pena.

“Ma se scopro di soffrire di apnee, quali soluzioni ho a disposizione?”

“Oh, ce ne sono molte” ha detto soppesando la frase, come se pregustasse il contenuto di ciò che stava per seguire. “Potrebbe essere operata, assumere dei farmaci, fare dei semplici esercizi e così via… Ma su tutti i rimedi, uno solo è davvero efficace.”

Così dicendo, ha estratto un ulteriore aggeggio, questa volta più ingombrante, che essenzialmente consisteva di un unico tubo di plastica trasparente arrotolato su se stesso, attaccato a un dispositivo elettrico con un ventilatore.

L’ho guardato incuriosita, finché non ho notato i due piccoli elastici laterali. No. Non poteva essere. Non stava veramente per fare ciò che sospettavo.

E invece sì. L’ha fatto. Ha voluto darmi una dimostrazione del destino che mi aspettava. Ha srotolato il tubo, ha afferrato gli elastici e se li è posizionati dietro le orecchie. Poi mi ha guardato, serissimo, la proboscide gommosa e ciondolante fino all’ombelico.

Con la voce camuffata dalla mascherina, mi ha detto: “Questo strumento le fornirà una ventilazione continua: niente più emicranie!”

La frase aveva un’eco messianica. Sembrava il verdetto di un oracolo esperto di marketing. Volevo credergli. Dovevo credergli.

Avevo delle serie difficoltà di concentrazione nel guardarlo in faccia però, questa versione robotica di Elephant Man.

Gli ho stretto la mano, ho afferrato il mio kit, e ho lasciato lo studio con una speranza rivolta a me stessa, a mio marito e alle donne affette da apnea notturna in generale nel mondo.

Che i canoni estetici della lingerie autunno-inverno 2017 accolgano le proboscidi sulle passerelle di New York.[:it]A me non sarebbe mai venuto in mente.

D’altronde quando ho mal di testa pensare è l’ultima delle attività a cui riesco a dedicarmi. L’emicrania ti proietta in uno stato di sospensione temporanea, simile a quella che deve provare l’ameba. Si esiste nel presente, assorbiti in una situazione di pura fisicità, dove ogni pretesto si trasforma in uno stimolo.

Divento un cuore pulsante, trascinato a forza. Non vedo, perché priva di palpebre. Non sento, perché tutto è rumore. Nel mio movimento ameboide, l’unica sensazione riconoscibile è la fatica. “Non essere” è terribilmente stancante, soprattutto in un ambiente che richiede un’interazione continua.

Mentre il proprio corpo terreno è esposto agli agenti atmosferici e agli inutili tentativi di conversazione dei vicini, il dolore agisce come una mucillagine collosa da cui è impossibile disfarsi.

Per questo quando il neurologo mi ha detto: “Potrebbe essere dovuta alla qualità del sonno”, mi sono limitata ad annuire.

Muovere la testa su e giù è uno di quei gesti che possono essere svolti quasi per inerzia, il collo a ciondoloni, schiudendo appena le labbra. Il risultato non è eccezionale, si passa giustamente per cretini, ma esprime l’assenso richiesto dal caso.

Una silhouette umana impregnata di gelsomino, forse la segretaria, mi ha fissato l’appuntamento da un nuovo dottore per il mese successivo, e io ho riposto il commento nel cassetto delle ipotesi. Volevo solo togliermi di torno, svuotare le narici dal suo profumo. Dimenticarmi che al mondo esistevano gelsomini, segretarie e dottori.

Certo, poteva essere il sonno. Il mese prima avevano suggerito la tiroide, quello prima ancora l’alimentazione, e via dicendo. Mancava ancora la connessione segreta con l’alluce valgo.
Almeno questo problema pareva di facile risoluzione: avrei comprato lenzuola di raso e un omino dotato di un ramo di palma, pronto a sventolarlo nelle notti torride. Fresca e riposata, mi sarei buttata il problema alle spalle con una risata beffarda.

In fondo sono anni che sperimento rimedi alternativi. Dai litri di tisane fino a trasudare finocchietto selvatico, alla dieta del magone (senza pane, senza pasta, senza zuccheri), alla sconfinata branca di massaggi e riflessologia.

In questo tragitto alla scoperta del mio corpo, ho capito di non essere sola. Migliaia di donne come me sono impegnate ogni giorno nella stessa crociata, anche se non necessariamente animate dallo stesso obiettivo. Chi vuole ringiovanire, chi curare l’intestino irritabile, chi, ancora, raggiungere un equilibrio psico-emotivo in sintonia con le stelle.

Il concetto, in realtà, è lo stesso applicato dai monaci medievali che si autoflagellavano: più la pena corporale è punitiva, più si ha la sensazione che sia efficace.

Ma ogni volta è come voler agire sul fato. Imprevedibile e potente, ogni attacco di emicrania agisce in maniera indiscriminata, a prescindere dalle proprie azioni.

I più restii ad accettare l’evidenza sono proprio gli addetti ai lavori. Tant’è che con ostinazione mi rimbalzano come una pallina da ping pong dall’uno all’altro medico, frugandomi le vene del cervello alla ricerca del tesoro, prescrivendo farmaci dai nomi impronunciabili, esortandomi a stili di vita sempre più virtuosi. Perché, se c’è una verità che a questo punto mi è assolutamente chiara, è che l’emicrania in realtà è la coscienza.

Se rileggessimo Pinocchio con più attenzione, scopriremmo che il Grillo Parlante altro non era che una cefalea a grappolo.
“Non far quello, non far questo!”, lo stuzzicava l’insetto agitando le antenne, ben sapendo che così non faceva altro che spingerlo nel precipizio.
Chiunque altro l’avrebbe schiacciato al muro con una pedata. Ma il burattino non poteva, perché a parlare era la moralità che lo preservava dal caos, dall’illogico, dal disordine.

A riprova di questa mia teoria, gli alcolici, il cioccolato, i formaggi grassi e il caffè sono nella lista delle cose da evitare, così come guardare la TV o il computer la sera, o farsi una scorpacciata di gelato dalla vaschetta.

Sono sicura che se ammettessi un giorno di avere un debole per Colin Firth e di apprezzare i calzettoni di lana d’inverno la lista verrebbe ampliata all’istante. “Si consiglia, signora, un’astinenza immediata da Colin. Meglio se a piedi scalzi”.

Quando mi sono presentata dal “dottore del sonno”, non sapevo bene cosa aspettarmi. Mi avrebbe fatto bere una pozione soporifera e legata a degli elettrodi?

Non proprio.

Mi ha fatto accomodare, spiegandomi in che cosa consisteva un’apnea notturna. Forse, ne ero affetta. Forse, se l’avessi scoperto, il Nebbiolo sarebbe tornato a me.

“Lei russa?” mi ha chiesto con aria professionale.

Ecco. Neppure l’amor proprio mi restava. Ma potevo sempre mentire, fingermi la Bella Addormentata. Ho ripiegato per un timido: “Forse”.

“Insomma, qualcuno gliel’avrà pur detto?”

Non mollava. Mancava solo la lampada accecante negli occhi.

“Effettivamente, mio marito ogni tanto mi dà un calcio.”

Al che si è illuminato, lo pupille tremolanti per l’eccitazione.

“Benissimo.”

Menomale. Avevo passato il test. Ora potevamo parlare del tempo.

“Ma in che modo russa?”

“Prego?”

“Ma sì, mi dica. Ora le faccio vedere…”

Ha chiuso gli occhi, l’aria serena di un bambino tra le lenzuola. Ha cominciato a emettere rumori intermittenti, delle pernacchie ritmate da brevi pause, anche abbastanza a tempo. Poi è rinvenuto d’un tratto: “Così?”

Lo guardavo, in silenzio. Incapace di proferire parola.

“Russa così?” mi ha incalzato. “Oppure in questo modo?”

È ripiombato nella trance. Questa volta la faccia di un adulto contrito. Produceva piccoli rantoli affannati. È andato avanti per una manciata di secondi, poi ha smesso.
Non emetteva un suono, non muoveva un muscolo. Oddio, stava trattenendo il fiato.
Di lì a poco sarebbe svenuto e io non avrei saputo che fare, come motivare ai soccorsi che il dottore si era autoinflitto un’asfissia in mia presenza. A un certo punto è esploso in un grugnito mostruoso, accompagnato da un sobbalzo.

Poi, come se nulla fosse, ha ripreso l’aria da professore.

Ecco, questa è l’apnea. La respirazione si interrompe, i muscoli si irrigidiscono e una contrazione avverte il cervello della mancanza di ossigeno. Ma è un sonno disturbato, per questa ragione alla mattina ci si sente stanchi, o si possono avere le emicranie.”

La spiegazione teneva, ma la sua immagine mi aveva turbata profondamente. Non ero pronta per pensare a me stessa in quei termini.

Il dottore mi ha consegnato un kit a domicilio, un aggeggio con fili e tubicini colorati da utilizzare la notte. Avrebbe registrato ogni mio soffio, consegnando ai posteri la verità.

D’accordo, ero pronta a lasciarmi monitorare. Ma volevo essere certa che ne valesse veramente la pena.

“Ma se scopro di soffrire di apnee, quali soluzioni ho a disposizione?”

“Oh, ce ne sono molte” ha detto soppesando la frase, come se pregustasse il contenuto di ciò che stava per seguire. “Potrebbe essere operata, assumere dei farmaci, fare dei semplici esercizi e così via… Ma su tutti i rimedi, uno solo è davvero efficace.”

Così dicendo, ha estratto un ulteriore aggeggio, questa volta più ingombrante, che essenzialmente consisteva di un unico tubo di plastica trasparente arrotolato su se stesso, attaccato a un dispositivo elettrico con un ventilatore.

L’ho guardato incuriosita, finché non ho notato i due piccoli elastici laterali. No. Non poteva essere. Non stava veramente per fare ciò che sospettavo.

E invece sì. L’ha fatto. Ha voluto darmi una dimostrazione del destino che mi aspettava. Ha srotolato il tubo, ha afferrato gli elastici e se li è posizionati dietro le orecchie. Poi mi ha guardato, serissimo, la proboscide gommosa e ciondolante fino all’ombelico.

Con la voce camuffata dalla mascherina, mi ha detto: “Questo strumento le fornirà una ventilazione continua: niente più emicranie!”

La frase aveva un’eco messianica. Sembrava il verdetto di un oracolo esperto di marketing. Volevo credergli. Dovevo credergli.

Avevo delle serie difficoltà di concentrazione nel guardarlo in faccia però, questa versione robotica di Elephant Man.

Gli ho stretto la mano, ho afferrato il mio kit, e ho lasciato lo studio con una speranza rivolta a me stessa, a mio marito e alle donne affette da apnea notturna in generale nel mondo.

Che i canoni estetici della lingerie autunno-inverno 2017 accolgano le proboscidi sulle passerelle di New York.

 

 

 

 

 

Silvia Bajardi

Un’italiana nel Nuovo Mondo. E vabe’, ma allora ditelo che appena arrivo votate Trump. Non mi resta che il blog.

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