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Sono a scrivere tranquillamente al pc.
Laddove ‘tranquillamente’ è, come al solito, un modo di dire generico e poco accurato per descrivere lo stato mentale in cui verso dal 1986.
Ad ogni modo.
Sono al pc e bevo caffè solubile.
Sì perché, ultimamente, “ho bisogno di qualcosa che duri più di un espresso ma non sia garbato come un tè. Così bevo caffè lungo”. (scrivete questo sulla mia lapide)
Dovrei acquistare la macchina per il caffè americano, un giorno la comprerò.
Potrei ovviare bevendo due espressi allungati con acqua, un giorno lo farò.
Intanto, procedo con l’odio gratuito verso me stessa che, oltre a portarmi all’assunzione di gallette di riso, mi fa bere caffè solubile.
Stupido vizio di non drogarmi come tutte le persone normali.
Mentre bolle l’acqua, mi decido a smussare la punizione da infliggermi optando per del normalissimo pane, al posto delle gallette.
Così, spalmo la marmellata su una fetta di pane toscano talmente pieno di buchi che in pratica ho fatto colazione sul pavimento.
Mentre trattengo la furia nervosa del primo mattino, avverto, nitido, il cigolio delle gallette di riso che scoppiettano di risate alle mie spalle.
Le userò dunque come ferma porte, al più presto.
Innervosita decido di non mangiare e aspetto solo il caffè.
Che in breve è pronto.
Lo verso in una bellissima tazza giapponese. Ma non giapponese nel senso che l’ho presa da Tiger e siccome ci hanno spennellato due strisce bianche sopra, allora è giapponese.
Questa è proprio giapponese dal Giappone.
Questa pesa mezzo chilo e con questa i liquidi non si raffreddano. Mai.
E devo dire che scrivere, avere qualcosa di caldo affianco e tonificare le braccia ogni volta che sollevo la tazza per fare un sorso, non è male, come soluzione.
Sti giapponesi ne sanno una più del diavolo.
Sorso dopo sorso, il tempo passa. Incredibile quanto possa durare una tazza di caffè lungo in tazza giapponese.
Dopo 66/67 ore, lo finisco e decido di farmene un altro.
Alla faccia di chi mi vuole male. Che poi sarei io, evidentemente.
Vado in cucina serafica ma più mi avvicino, più la sensazione che ci sia qualcosa che non va diventa certezza.
Il lampo che precede il tuono, il tuono che precede la tempesta.
Quando la tragedia si preannuncia con un dettaglio, apparentemente insignificante.
Un odore.
Quando l’orrore ha un volto, tanti piccoli volti.
Volti tondi, pregiati, bianchi, sfumati di nero.
Nero carbone. Nero Cenere. Nero funerale.
Il funerale dei mortacci dei fagioli maledetti che ho bruciato.
Quelli speciali. Quelli molisani. Quelli che volevo preparare ai miei amici, per stasera. Amici che avevo pure avvisato “stasera, una chicca molisana speciale”
Ecco, la parabola della vita.
Siamo inermi di fronte all’infinto della stronzaggine che mi assiste. Sempre.
Ma possiamo imparare, anche dallo strazio.
Imparare cosa?
1. Se una madre ti regala dei fagioli pregiati che costano 15 euro al chilo, è il caso di rispondere affermativamente quando lei chiederà, previdente “Te li cucino io e te li porti già pronti?” Meglio evitare di pavoneggiarsi con frasi tipo “Ma’, e che sarà mai cuoce du’ fagioli?”
2. Quando c’è una cena con amici, magari evitare di anticipare un menù che potrebbe trasformarsi nel funerale del legume molisano.
3. Bere l’espresso. Sempre.
Se avessi bevuto l’espresso, l’avrei finito in 5 minuti, sarei tornata a posare la tazza prima e la tragedia non si sarebbe consumata lenta, sotto i miei occhi.
4. Quando si scrive un post Fb su una tragedia culinaria, mettere la foto nei commenti e sviare i lettori con la foto di una bella tazza. Per rispetto dei fagioli caduti in una guerra che non hanno chiesto.
Altrimenti metterla al meno in fondo all’articolo.
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