Cosa NON fare quando si guida negli Stati Uniti

[:it]Sono qui ancora tremante sorseggiando il mio caffè, l’unico antidoto ai sintomi da stress post-traumatico. A difficoltà sto seduta sulla sedia e l’occhio mi balla talmente che tra un po’ mi cadrà nella tazza.

Stamattina, quando mi sono svegliata, non avrei mai pensato che la giornata mi avrebbe catapultata in un serial poliziesco.

Tutto era iniziato come da copione: nessuno desiderava distaccarsi dal tepore del sonno, nessuno aveva il benché minimo desiderio di comunicare se non a brevi, incomprensibili grugniti.

La casa si è messa in fermento dopo la colazione.

Le ore, dilatate all’infinito, si sono accorciate d’un tratto a pochi, frenetici minuti: quelli che accomunano ogni famiglia del globo, quando i calzini si abbinano in modi improbabili o lasciano la lavatrice alla volta dei cassetti. È una storia così ritrita da non richiedere approfondimenti. D’altronde ci sono misteri insondabili che la fisica non potrà mai spiegare.

A quello dei calzini, potrei aggiungere quello delle mutande, probabilmente di origine aliena. Non solo viaggiano autonomamente tra gli armadi di casa, ma cambiano di dimensioni, colori e consistenza, suscitando l’irritazione dei miei famigliari. Si potrebbe incolpare la lavatrice, se non fosse che il mistero avviene nel buio della notte, quando il silenzio avvolge la casa e gli UFO possono agire indisturbati.

Così, mentre la conversazione si animava tra inspiegabili metamorfosi di indumenti, mi sono accorta che le lancette dell’orologio segnavano implacabili l’ora di uscire. Era un peccato perché le mutande da azzurre erano diventate violette e si erano ristrette di due taglie. Un fenomeno affascinante. Mia figlia non se ne capacitava e, a dir la verità, neppure io. L’unica spiegazione plausibile, oltre alla pista extraterrestre, era che si trattasse di quelle della bambola.

Lo spettro di arrivare in ritardo a scuola è infinitamente peggiore a quello in Italia. Si riceve un “tardy”, una specie di stigma che etichetta bambini e genitori in maniera indelebile e cumulativa: più ne ricevi, più la pena inflitta sarà terribile. Per il momento ne abbiamo presi solo due. Al quinto, saremo certamente gettate in una fossa di insegnanti e figure non ben specificate, e lasciate al nostro destino.

Quando si è di fretta, un orso invisibile ci si attorciglia alle caviglie. Ci rende goffi, impacciati nei movimenti, tentennanti sui piedi. Ci fa inciampare sulla soglia della porta. Ci nasconde le chiavi della macchina nel folto del pelo, spingendoci a cercarle e a urlare cose terribili. Riesce addirittura a riempire la vescica dei nostri figli, accuratamente svuotata un minuto prima, per farli correre in bagno in momenti inopportuni. Lo fa con un liquido magico, come quelle candeline che si riaccendono non appena ci soffi sopra: la pipì scappa anche una volta seduti nell’automobile, nel tragitto da casa a scuola.

Il freddo, in questi frangenti, è un complice dell’orso e oggi faceva freddissimo, tanto che per un attimo mi ha sfiorato il pensiero di raggiungere il bagno. Ma io dovevo offrire il mio fulgido esempio di come si esce di casa senza tergiversare.

Così ho premuto sull’acceleratore.

Il limite di velocità nelle strade residenziali è di 25 miglia all’ora, che si riduce a 20  in prossimità delle scuole e a 15 in orario di entrata e uscita dall’edificio. Corrispondono a 25 Km/h. Io andavo ai trenta, sovrappensiero e ancora incerta se quella puntatina in bagno non fosse stata un’idea migliore rispetto all’educazione spicciola.

A un certo punto ho rallentato: di fronte a me c’era la coda dei veicoli che lasciavano i bambini all’ingresso.

Il modo in cui la scuola gestisce il traffico mattutino è organizzato con una precisione ammirevole. In una fila ci sono le automobili dirette al parcheggio, quelle dei figli tiranni che costringono i genitori ad accompagnarli a piedi alla porta fino al suonare della campanella. Io appartengo a questa categoria. Nell’altra fila, quella del “drop off”, alcuni bambini e volontari dotati di pettorina giallo-fosforescente aprono le portiere, fanno scendere gli alunni e fanno in modo che vadano a destinazione.

Mentre ero lì a pensare come fosse semplice ed efficace il sistema americano rispetto allo strombazzare caotico italiano, ho udito uno strano rumore dall’esterno. Pareva uno squittio. Ma lo squittio di un topo preistorico, rapido e perforante come se l’avessero riesumato dal Mesozoico contro il suo volere.

Ferma al volante, mi sono guardata intorno. Dal finestrino, ho visto l’espressione allarmata dei passanti.

Ho alzato le spalle. Quando l’inspiegabile accade, si accettano i propri limiti e si alza il volume della radio. Ho cominciato a ingannare l’attesa canticchiando una canzone di Rhianna. Mia figlia, sul sedile posteriore, ballava e si dimenava. Facevamo proprio un bel quadretto di serenità familiare pop.

Il topo però aveva deciso che doveva farsi spazio a tutti i costi nell’era moderna e ha lanciato un nuovo squittio, questa volta più prolungato. A voler essere specifici, anche spazientito.

Proveniva chiaramente da un punto esterno alle mie spalle.

Sollevando gli occhi, dallo specchietto retrovisore, ho visto la macchina di un poliziotto. Poi il poliziotto medesimo gesticolare furibondo. Aveva uno sguardo fumante, e l’aria inferocita di chi non ha dormito da anni.

Con un colpo di mano mi ha indicato di parcheggiare a destra, cosa che ho fatto all’istante, mentre il mio cuore pompava vampate calde fino alla punta del naso.

In un batter d’occhio ho avuto una di quelle visioni extra-corporali, ripercorrendo la strada a ritroso nel tempo: io che acceleravo, la macchina blu che avevo visto con la coda dell’occhio, il poliziotto che mi intimava di fermarmi, io che lo ignoravo e poi ondeggiavo la testa con convinzione sulle note di Rhianna.

Mi ha bussato al finestrino. Presa dal panico, ho confuso il pulsante di apertura con quello della serratura. Allora, per sveltire la comunicazione, ho provato a spalancare la portiera. Il poliziotto ha afferrato la maniglia e me l’ha richiusa in faccia. SBAM!  Poco mancava che mi tranciasse un dito.

“Stia dentro!” ha gridato. Era serissimo. Aveva gli occhi azzurri e la riga dei capelli da una parte, denti bianchissimi e la faccia da bravo studente. Per un attimo ho pensato a Rolfe, il fidanzatino in “Tutti insieme appassionatamente” arruolato nella gioventù hitleriana.

Ci sono momenti in cui lo shock è talmente forte da congelare qualunque processo mentale. Da quell’istante, sono ricaduta in uno stato catatonico che non ha assolutamente aiutato la situazione.

“Documenti!” ha urlato di nuovo.

Il mio cervello ripeteva: documenti, documenti, documenti. Ma senza riuscire davvero a focalizzarne il significato. L’unico pensiero nitido era che ora la pipì mi scappava davvero, in maniera quasi incontenibile.

Ho aperto il cruscotto e iniziato a estrarre cartacce, caramelle, scontrini che gli mostravo con un sorriso mortificato. In risposta, il disprezzo. Finalmente, qualcosa che appariva significativo: due libretti. Li ha sfogliati disgustato, come se fossero i menu del ristorante peggiore in cui avesse mai messo piede, e mi ha fatto presente che mancava l’assicurazione. Era vero, e tra l’altro non mi ricordavo assolutamente che aspetto avesse.

Si è rintanato nella sua macchina a compilare scartoffie, sbuffando e bofonchiando tra sé e sé, mentre io chiamavo soccorso: magari mio marito si ricordava il nascondiglio segreto dell’assicurazione.

Detto fatto, era nel mio telefonino. In formato digitale. Talmente ovvio da risultare irritante. Vivo in un mondo tecnologico, l’avevo forse dimenticato?

Brandendo il telefonino come un trofeo, sono nuovamente uscita dalla macchina. Forse la multa poteva aspettare, almeno per questa volta. Forse il poliziotto avrebbe perdonato un’italiana sbadata. Gli avrei spiegato che da noi le assicurazioni sono cartacee, che la burocrazia italiana si nutre di carta come fosse zucchero filato, che persino l’autoritratto di Leonardo Da Vinci è su carta. Avremmo riso insieme e ci saremmo lasciati con una stretta di mano.

ERRORE.

È saltato in piedi, posseduto dal demonio, sbraitando in una lingua incomprensibile e intimandomi di rientrare immediatamente nel veicolo. E tutte quelle scene di sparatorie sul TG, l’immaginario collettivo del poliziotto imbufalito, si sono materializzate di fronte ai miei occhi. Se avesse estratto una pistola in quel momento l’avrei quasi capito: l’avevo già visto in un film.

Mi sono rifiondata in macchina, tuffandomi di testa. Mia figlia nel frattempo aveva allestito un muro del pianto nel sedile posteriore e continuava a chiedermi se saremmo finite in prigione. Sinceramente non mi andava di contraddirla, l’importante era restare insieme.

Terminata la compilazione dei suoi foglietti, il poliziotto mi ha raggiunta per decretare la mia sorte: 550 dollari di multa. Una cifra esorbitante. Non per la velocità, atto di per sé gravissimo vicino a una scuola, ma per non aver mostrato l’assicurazione. Segretamente, dentro di me, sapevo che mi puniva per essere imbranata.

“Ma lei la conosce la prassi quando la polizia la ferma?”

Evidentemente no. Su questo potevamo tranquillamente concordare.

Avrei dovuto mantenere le mani sul volante. Avrei dovuto restare calma. Avrei dovuto, con gesti misurati, porgergli i documenti richiesti nell’ordine specificato. Mai e poi mai avrei dovuto aprire la portiera e non mi avrebbe dovuto neppure sfiorare il pensiero di scendere dall’automobile.

Perché ognuno di questi gesti può essere interpretato come l’inizio di un’aggressione.

Nell’ordine, una ad una, ero riuscita a violare tutte le regole basiche.

Il gabinetto ormai pareva un miraggio e, nel realizzarlo, lo sconforto mi ha offuscato la vista.

Timidamente gli ho offerto il mio cellulare, con la mia ormai inutile assicurazione. Come per la Regina delle Nevi, tanto è bastato a sciogliere il cuore di ghiaccio del poliziotto.

Rolfe, ha digrignato i denti bianchi in una specie di sorriso.

“Ha quindici giorni per dimostrare di essere in possesso di un’assicurazione. La multa sarà revocata in tal caso. E la prossima volta, vada piano!”.

Il tono era affabile, il corpo scomposto in una posa rilassata. Si era trasformato in un essere quasi umano. Restavano i denti bianchissimi a tradirlo.

Attorno a noi si era creata una piccola folla di curiosi, genitori modello che avevano già depositato i figli e compativano il “tardy” che mi aspettava.

Rolfe non lo sapeva, ma non ci sarebbe stata una prossima volta. Quello era un addio definitivo, faceva meglio a prepararsi.

Mai più inseguimenti alla OJ Simpson.

D’ora in poi, vado a piedi.[:]

Silvia Bajardi

Un’italiana nel Nuovo Mondo. E vabe’, ma allora ditelo che appena arrivo votate Trump. Non mi resta che il blog.

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