[:it]Sono qui ancora tremante sorseggiando il mio caffè, l’unico antidoto ai sintomi da stress post-traumatico. A difficoltà sto seduta sulla sedia e l’occhio mi balla talmente che tra un po’ mi cadrà nella tazza.
Stamattina, quando mi sono svegliata, non avrei mai pensato che la giornata mi avrebbe catapultata in un serial poliziesco.
Tutto era iniziato come da copione: nessuno desiderava distaccarsi dal tepore del sonno, nessuno aveva il benché minimo desiderio di comunicare se non a brevi, incomprensibili grugniti.
La casa si è messa in fermento dopo la colazione.
A quello dei calzini, potrei aggiungere quello delle mutande, probabilmente di origine aliena. Non solo viaggiano autonomamente tra gli armadi di casa, ma cambiano di dimensioni, colori e consistenza, suscitando l’irritazione dei miei famigliari. Si potrebbe incolpare la lavatrice, se non fosse che il mistero avviene nel buio della notte, quando il silenzio avvolge la casa e gli UFO possono agire indisturbati.
Lo spettro di arrivare in ritardo a scuola è infinitamente peggiore a quello in Italia. Si riceve un “tardy”, una specie di stigma che etichetta bambini e genitori in maniera indelebile e cumulativa: più ne ricevi, più la pena inflitta sarà terribile. Per il momento ne abbiamo presi solo due. Al quinto, saremo certamente gettate in una fossa di insegnanti e figure non ben specificate, e lasciate al nostro destino.
Il freddo, in questi frangenti, è un complice dell’orso e oggi faceva freddissimo, tanto che per un attimo mi ha sfiorato il pensiero di raggiungere il bagno. Ma io dovevo offrire il mio fulgido esempio di come si esce di casa senza tergiversare.
Così ho premuto sull’acceleratore.
A un certo punto ho rallentato: di fronte a me c’era la coda dei veicoli che lasciavano i bambini all’ingresso.
Mentre ero lì a pensare come fosse semplice ed efficace il sistema americano rispetto allo strombazzare caotico italiano, ho udito uno strano rumore dall’esterno. Pareva uno squittio. Ma lo squittio di un topo preistorico, rapido e perforante come se l’avessero riesumato dal Mesozoico contro il suo volere.
Ferma al volante, mi sono guardata intorno. Dal finestrino, ho visto l’espressione allarmata dei passanti.
Ho alzato le spalle. Quando l’inspiegabile accade, si accettano i propri limiti e si alza il volume della radio. Ho cominciato a ingannare l’attesa canticchiando una canzone di Rhianna. Mia figlia, sul sedile posteriore, ballava e si dimenava. Facevamo proprio un bel quadretto di serenità familiare pop.
Il topo però aveva deciso che doveva farsi spazio a tutti i costi nell’era moderna e ha lanciato un nuovo squittio, questa volta più prolungato. A voler essere specifici, anche spazientito.
Proveniva chiaramente da un punto esterno alle mie spalle.
Con un colpo di mano mi ha indicato di parcheggiare a destra, cosa che ho fatto all’istante, mentre il mio cuore pompava vampate calde fino alla punta del naso.
In un batter d’occhio ho avuto una di quelle visioni extra-corporali, ripercorrendo la strada a ritroso nel tempo: io che acceleravo, la macchina blu che avevo visto con la coda dell’occhio, il poliziotto che mi intimava di fermarmi, io che lo ignoravo e poi ondeggiavo la testa con convinzione sulle note di Rhianna.
Mi ha bussato al finestrino. Presa dal panico, ho confuso il pulsante di apertura con quello della serratura. Allora, per sveltire la comunicazione, ho provato a spalancare la portiera. Il poliziotto ha afferrato la maniglia e me l’ha richiusa in faccia. SBAM! Poco mancava che mi tranciasse un dito.
Ci sono momenti in cui lo shock è talmente forte da congelare qualunque processo mentale. Da quell’istante, sono ricaduta in uno stato catatonico che non ha assolutamente aiutato la situazione.
“Documenti!” ha urlato di nuovo.
Il mio cervello ripeteva: documenti, documenti, documenti. Ma senza riuscire davvero a focalizzarne il significato. L’unico pensiero nitido era che ora la pipì mi scappava davvero, in maniera quasi incontenibile.
Ho aperto il cruscotto e iniziato a estrarre cartacce, caramelle, scontrini che gli mostravo con un sorriso mortificato. In risposta, il disprezzo. Finalmente, qualcosa che appariva significativo: due libretti. Li ha sfogliati disgustato, come se fossero i menu del ristorante peggiore in cui avesse mai messo piede, e mi ha fatto presente che mancava l’assicurazione. Era vero, e tra l’altro non mi ricordavo assolutamente che aspetto avesse.
Detto fatto, era nel mio telefonino. In formato digitale. Talmente ovvio da risultare irritante. Vivo in un mondo tecnologico, l’avevo forse dimenticato?
Brandendo il telefonino come un trofeo, sono nuovamente uscita dalla macchina. Forse la multa poteva aspettare, almeno per questa volta. Forse il poliziotto avrebbe perdonato un’italiana sbadata. Gli avrei spiegato che da noi le assicurazioni sono cartacee, che la burocrazia italiana si nutre di carta come fosse zucchero filato, che persino l’autoritratto di Leonardo Da Vinci è su carta. Avremmo riso insieme e ci saremmo lasciati con una stretta di mano.
ERRORE.
Terminata la compilazione dei suoi foglietti, il poliziotto mi ha raggiunta per decretare la mia sorte: 550 dollari di multa. Una cifra esorbitante. Non per la velocità, atto di per sé gravissimo vicino a una scuola, ma per non aver mostrato l’assicurazione. Segretamente, dentro di me, sapevo che mi puniva per essere imbranata.
“Ma lei la conosce la prassi quando la polizia la ferma?”
Evidentemente no. Su questo potevamo tranquillamente concordare.
Perché ognuno di questi gesti può essere interpretato come l’inizio di un’aggressione.
Nell’ordine, una ad una, ero riuscita a violare tutte le regole basiche.
Il gabinetto ormai pareva un miraggio e, nel realizzarlo, lo sconforto mi ha offuscato la vista.
Timidamente gli ho offerto il mio cellulare, con la mia ormai inutile assicurazione. Come per la Regina delle Nevi, tanto è bastato a sciogliere il cuore di ghiaccio del poliziotto.
Rolfe, ha digrignato i denti bianchi in una specie di sorriso.
“Ha quindici giorni per dimostrare di essere in possesso di un’assicurazione. La multa sarà revocata in tal caso. E la prossima volta, vada piano!”.
Il tono era affabile, il corpo scomposto in una posa rilassata. Si era trasformato in un essere quasi umano. Restavano i denti bianchissimi a tradirlo.
Attorno a noi si era creata una piccola folla di curiosi, genitori modello che avevano già depositato i figli e compativano il “tardy” che mi aspettava.
Mai più inseguimenti alla OJ Simpson.
D’ora in poi, vado a piedi.[:]
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