[:en]Se io fossi una signora per bene, come l’esempio inarrivabile di mia suocera, andrei dalla parrucchiera al sabato mattina, prima della spesa settimanale al supermercato. Lei, la parrucchiera, sarebbe una mia vecchia compagna delle elementari, avrei il suo numero segnato sulla rubrica vicino al telefono fisso della cucina, le manderei una stella di Natale per le feste e ci ordineremmo un Punt e Mes prima della chiusura del negozio.
Ma io faccio la spesa al gruppo d’acquisto, ho solo il cellulare, non sono più in contatto con i vecchi compagni e faccio morire le stelle di Natale entro Capodanno; insomma, non sono mia suocera!
L’unico punto in comune è il vermouth.
Per tagliare i capelli ho fatto una rapida analisi di mercato rispetto all’offerta di zona e, dopo un paio di prove fallimentari, ho deciso: vado dai cinesi!
Il costo è competitivo, al limite dell’illegale: 6 euro una piega, 10 euro per il taglio, con 18 euro tagliamo i capelli sia io che mia figlia; mi spingo fino a 22 euro per i colpi di sole.
L’ambiente è decisamente informale: i cinesi non parlano con te, non ti chiedono a che scuola vanno i tuoi figli maschi mentre hai due femmine, o da quanto tempo hai il cane mentre a casa ti aspetta una palla di pelo sul termosifone. Ascoltano musica cinese, parlano tra loro ridendo, rispondono tre volte al telefono mentre usano il phon.
L’età media rasenta una denuncia all’ufficio immigrazione: quando entri ti accoglie una schiera di dodicenni con tagli all’ultima moda e ciuffi colorati come tu sogni da mesi.
Anche se sono tutti occupati, non si fa mai la coda: dal retrobottega spunta qualcuno che ti lava subito i capelli, saltando il quarto d’ora accademico in cui avresti potuto finalmente guardare facebook in pace.
Dai giornali sullo scaffale fanno capolino modelle cinesi con occhi a mandorla e coiffeuse londinesi, devi solo scegliere il tuo nuovo improbabile taglio e lasciarti cullare dalla musica.
Non esiste la maschera per i capelli, non insistono per la lacca.
E poi, se è il tuo giorno fortunato, puoi assistere gratuitamente a una fantastica rappresentazione antropologica che supera il livello di qualsiasi ricerca accademica sull’immigrazione: l’entrata in negozio di altre etnie. La donna araba vince sul parrucchiere cinese per sfinimento: lo bombarda di gesti e parole per spiegare per filo e per segno come devono essere stirati i capelli alla figlia, e rimane per ore a fissare il lavoro intervenendo a ogni minima distrazione del malcapitato.
La donna peruviana invece gioca d’anticipo: prima ancora di cominciare, mette sulla cassa i soldi che secondo lei deve costare il suo trattamento, si si porta lo shampoo da casa e si accomoda sulla poltrona passando forbici e spazzola.
Di rumene nemmeno l’ombra: il livello della competizione è altissimo e preferiscono un rilassato “mi faccio fare i capelli a casa da un’amica”.
Io, da brava italiana, chiedo anche la ricevuta fiscale, fornita solo su espressa richiesta della clientela.
[:it]parrucchieri, sol levante, cinesi
Se io fossi una signora per bene, come l’esempio inarrivabile di mia suocera, andrei dalla parrucchiera al sabato mattina, prima della spesa settimanale al supermercato. Lei, la parrucchiera, sarebbe una mia vecchia compagna delle elementari, avrei il suo numero segnato sulla rubrica vicino al telefono fisso della cucina, le manderei una stella di Natale per le feste e ci ordineremmo un Punt e Mes prima della chiusura del negozio.
Ma io faccio la spesa al gruppo d’acquisto, ho solo il cellulare, non sono più in contatto con i vecchi compagni e faccio morire le stelle di Natale entro Capodanno; insomma, non sono mia suocera!
L’unico punto in comune è il vermouth.
Per tagliare i capelli ho fatto una rapida analisi di mercato rispetto all’offerta di zona e, dopo un paio di prove fallimentari, ho deciso: vado dai cinesi!
Il costo è competitivo, al limite dell’illegale: 6 euro una piega, 10 euro per il taglio, con 18 euro tagliamo i capelli sia io che mia figlia; mi spingo fino a 22 euro per i colpi di sole.
L’ambiente è decisamente informale: i cinesi non parlano con te, non ti chiedono a che scuola vanno i tuoi figli maschi mentre hai due femmine, o da quanto tempo hai il cane mentre a casa ti aspetta una palla di pelo sul termosifone. Ascoltano musica cinese, parlano tra loro ridendo, rispondono tre volte al telefono mentre usano il phon.
L’età media rasenta una denuncia all’ufficio immigrazione: quando entri ti accoglie una schiera di dodicenni con tagli all’ultima moda e ciuffi colorati come tu sogni da mesi.
Anche se sono tutti occupati, non si fa mai la coda: dal retrobottega spunta qualcuno che ti lava subito i capelli, saltando il quarto d’ora accademico in cui avresti potuto finalmente guardare facebook in pace.
Dai giornali sullo scaffale fanno capolino modelle cinesi con occhi a mandorla e coiffeur londinesi, devi solo scegliere il tuo nuovo improbabile taglio e lasciarti cullare dalla musica.
Non esiste la maschera per i capelli, non insistono per la lacca.
E poi, se è il tuo giorno fortunato, puoi assistere gratuitamente a una fantastica rappresentazione antropologica che supera il livello di qualsiasi ricerca accademica sull’immigrazione: l’entrata in negozio di altre etnie. La donna araba vince sul parrucchiere cinese per sfinimento: lo bombarda di gesti e parole per spiegare per filo e per segno come devono essere stirati i capelli alla figlia, e rimane per ore a fissare il lavoro intervenendo a ogni minima distrazione del malcapitato.
La donna peruviana invece gioca d’anticipo: prima ancora di cominciare, mette sulla cassa i soldi che secondo lei deve costare il suo trattamento, si si porta lo shampoo da casa e si accomoda sulla poltrona passando forbici e spazzola.
Di rumene nemmeno l’ombra: il livello della competizione è altissimo e preferiscono un rilassato “mi faccio fare i capelli a casa da un’amica”.
Io, da brava italiana, chiedo anche la ricevuta fiscale, fornita solo su espressa richiesta della clientela.
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