[:it]Se il cibo fosse dotato di parola e movimento, non esiterebbe a individuare gli estimatori appropriati tra la folla. Li sceglierebbe tra mille, ammiccando con aria complice.
Assisteremmo al discorso presidenziale di un tartufo prima di immolarsi alla grattugia, o al più discreto invito di un cioccolatino.
Le zampe si ritrarrebbero mestamente, improvvisamente consce del loro giallo paglierino, delle sottili fessure nella cartilagine, e della sostanza gelatinosa di cui andavano così fiere. Si rintanerebbero in quel cantuccio di reietti insieme alle lumache, nobili decadute escargots non comprese in molti angoli del globo, a braccetto con i tanti scarafaggi fritti disprezzati fuori dalla madre patria.
Tra cibo e goloso, insomma, si crea una chimica istantanea, fatta di passione e reciproci intendimenti (per gli inappetenti il discorso finisce qui, invece. Alla categoria, consiglio di abbandonare la lettura e dedicarsi a passatempi ricreativi come la mortificazione del corpo).
Perché, se c’è una cosa per cui è valsa la pena attraversare l’oceano e arrivare in America, è proprio l’acquisizione di una certezza sopra ogni altra: io sono ciò che mangio.
Il cibo non può parlare, ma oggi mi presento come portavoce delle sue innumerevoli verità, a partire dai Triscuit.
Ricordo un documentario che spiegava come ci fossero scienziati il cui lavoro consisteva nel creare la friabilità adeguata per gli standard di mercato: pare che lo scricchiolio del cibo solleciti l’udito e, di conseguenza, l’appetito.
Il reparto “pane e affini” in America riserva molte sorprese. Intanto perché gli agenti lievitanti sono in grado di sospingere una mongolfiera al di sopra delle Rocky Mountains, e spesso gonfiano lo stomaco con la stessa potenza. E poi perché presentano un’illimitata varietà di forme, colori e spessori, oltre che di sapori.
Il bagel si mangia tostato, possibilmente spalmato di cream cheese (o banalmente, Philadelphia). Ce ne sono mille varietà, dal dolce al salato, che vengono elencate dai baristi con la stessa velocità di quegli spot di medicinali dove la voce fuori campo legge precipitosamente le avvertenze.
Poi ho capito che la chiave stava nella semplicità: meglio optare per il “plain bagel”, o bagel senza fronzoli. Soprattutto dopo che, attratta dai semini colorati degli “everything bagels”, qualche mese fa ne ho acquistato un sacchetto da conservare in frigorifero: ogni volta che aprivo lo sportello venivo investita da un miasma malefico, e mi aggiravo per il resto della giornata intrisa di una nuvola di cipolla tossica.
La semplicità però non è sempre un’opzione disponibile. Anzi, il più delle volte c’è una sorta di sfida tra prodotti concorrenti per aggiungere via via nuovi ingredienti, spesso in combinazioni impensabili.
Forse la causa dell’obesità e la dipendenza dal cibo nocivo andrebbe cercata proprio qui: nello stupore. Un boccone vissuto come un tradimento momentaneo, dove lo sconcerto viene lentamente rimpiazzato dalla curiosità fino a spingerti a riprovare l’esperienza.
È bello comunque sapere che tutto può essere ridotto a due forme rassicuranti: la patatina e la barretta. Nel caso della prima, non c’è alcuna necessità di far comparire la patata tra gli ingredienti. Nella seconda, il segreto è la compressione dei componenti.
Ammetto che le ho mangiate anch’io, soprattutto nei primi tempi dopo il trasferimento. Poi i denti stavano per lasciarmi affondando nell’ultima barretta, attaccati saldamente a un ammasso al cocco che mi ha segnato per le merende a venire.
Chi ha mai detto che la mozzarella dovesse essere tonda? E chi ha deciso che invece di servirla sul piatto non potessimo sbucciarla come una banana e mangiarla a passeggio?
I bastoncini, di una sostanza bianchiccio-gommosa, non contengono acqua e sono incartati singolarmente in una pellicola.
Se li avessero chiamati in un qualunque altro modo forse avrebbero avuto qualche chance anche da noi. Invece il nome, che in America rappresenta il punto strategico del marketing, ha chiuso per sempre le porte all’espatrio italiano.
Se un solo string cheese varcasse i nostri confini, ci sarebbero sommosse popolari nelle latterie, e gruppi inferociti su Facebook per bandirli dal suolo sacro della patria.
Perché in Italia la mozzarella è una di quelle poche certezze che ancora ci fanno illudere che nulla è cambiato e che l’essenza della felicità può condensarsi in un latticino. E per una certezza del genere vale senz’altro lottare.
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