noi altrove

Se il cibo americano potesse parlare

[:it]Se il cibo fosse dotato di parola e movimento, non esiterebbe a individuare gli estimatori appropriati tra la folla. Li sceglierebbe tra mille, ammiccando con aria complice.

Vedremmo un hot dog ballonzolare allegramente nelle fauci dell’uno, e un panino di provola e salame capitolare in quelle di un altro, senza possibilità di confusione, con le traiettorie definite da preferenze consolidate.

Assisteremmo al discorso presidenziale di un tartufo prima di immolarsi alla grattugia, o al più discreto invito di un cioccolatino.

Oppure parteciperemmo ad amori non corrisposti, a quei rifiuti che spezzano il cuore: l’entusiasmo di un piatto fumante di zampe di gallina marinate, leccornia tra le più amate in Cina, scontrarsi con smorfie di disgusto altrove.

Le zampe si ritrarrebbero mestamente, improvvisamente consce del loro giallo paglierino, delle sottili fessure nella cartilagine, e della sostanza gelatinosa di cui andavano così fiere. Si rintanerebbero in quel cantuccio di reietti insieme alle lumache, nobili decadute escargots non comprese in molti angoli del globo, a braccetto con i tanti scarafaggi fritti disprezzati fuori dalla madre patria.

Tra cibo e goloso, insomma, si crea una chimica istantanea, fatta di passione e reciproci intendimenti (per gli inappetenti il discorso finisce qui, invece. Alla categoria, consiglio di abbandonare la lettura e dedicarsi a passatempi ricreativi come la mortificazione del corpo).

Perché, se c’è una cosa per cui è valsa la pena attraversare l’oceano e arrivare in America, è proprio l’acquisizione di una certezza sopra ogni altra: io sono ciò che mangio.

Il cibo non può parlare, ma oggi mi presento come portavoce delle sue innumerevoli verità, a partire dai Triscuit.

I Triscuit sono deliziosi cracker integrali il cui impasto ricorda una filigrana croccante. Se qualche insegnante volesse propormi alla Crusca, definirei la consistenza come “sgranocchiosa”.

Ricordo un documentario che spiegava come ci fossero scienziati il cui lavoro consisteva nel creare la friabilità adeguata per gli standard di mercato: pare che lo scricchiolio del cibo solleciti l’udito e, di conseguenza, l’appetito.

I Triscuit hanno senz’altro un team di esperti dedicato. Un altro team di creativi, invece, passa le notti a escogitarne i gusti: dall’“aglio abbrustolito”, al “Wasabi e salsa di soia”, alla “patata dolce arrostita”, alla “panna acida con erba cipollina”, per menzionarne solo alcuni tra i più fantasiosi.

Il reparto “pane e affini” in America riserva molte sorprese. Intanto perché gli agenti lievitanti sono in grado di sospingere una mongolfiera al di sopra delle Rocky Mountains, e spesso gonfiano lo stomaco con la stessa potenza. E poi perché presentano un’illimitata varietà di forme, colori e spessori, oltre che di sapori.

Il sovrano del settore è sicuramente il bagel: una ciambella di pane di origini ebraiche, la cui densità potrebbe essere paragonata a cento panini compressi in un singolo grosso anello. Nella mollica non passa un filo d’aria. Eppure, l’assenza di ossigeno ha i suoi pregi.

Il bagel si mangia tostato, possibilmente spalmato di cream cheese (o banalmente, Philadelphia). Ce ne sono mille varietà, dal dolce al salato, che vengono elencate dai baristi con la stessa velocità di quegli spot di medicinali dove la voce fuori campo legge precipitosamente le avvertenze.

Inizialmente la lista mi confondeva. Chiedevo spiegazioni dettagliate che si risolvevano nella ripetizione della medesima lista, ulteriormente accelerata.

Poi ho capito che la chiave stava nella semplicità: meglio optare per il “plain bagel”, o bagel senza fronzoli. Soprattutto dopo che, attratta dai semini colorati degli “everything bagels”, qualche mese fa ne ho acquistato un sacchetto da conservare in frigorifero: ogni volta che aprivo lo sportello venivo investita da un miasma malefico, e mi aggiravo per il resto della giornata intrisa di una nuvola di cipolla tossica.

La semplicità però non è sempre un’opzione disponibile. Anzi, il più delle volte c’è una sorta di sfida tra prodotti concorrenti per aggiungere via via nuovi ingredienti, spesso in combinazioni impensabili.

Accade nelle mille varietà di caffè, dove per la scelta occorrerebbe un corso di formazione biennale. Chi, infatti, saprebbe destreggiarsi al primo colpo tra Caffè Americano, Caffè Latte, Flat White, Cappuccino, Frappuccino, Caramel Macchiato, Cascara Latte, Praline Latte, Chile Mocha, Dolce Latte e Spiced Latte? Per non menzionare tutte le versioni di espresso o di “iced” latte, o le ricette formulate specificamente per particolari periodi festivi (Caramel Brulée Latte o Egg Nog Latte, ad esempio).

Lo stesso discorso vale per gli snack, un universo in continua espansione, accomunato da un’unica caratteristica: lo zucchero. Lo zucchero è presente ovunque, tranne negli snack super-healthy infarciti di noccioline e frutta secca. È talmente gettonato da essere aggiunto agli snack salati, a quelli che infili in bocca con aspettative totalmente opposte e lasciano interdetti durante la deglutizione.

Forse la causa dell’obesità e la dipendenza dal cibo nocivo andrebbe cercata proprio qui: nello stupore. Un boccone vissuto come un tradimento momentaneo, dove lo sconcerto viene lentamente rimpiazzato dalla curiosità fino a spingerti a riprovare l’esperienza.

“Ma sì”, pensa il cervello ormai vittima del meccanismo, “Mangiamone un altro. Vediamo davvero se ciò che si spacciava come salato invece era un concentrato di saccarosio e carboidrati complessi”.

È bello comunque sapere che tutto può essere ridotto a due forme rassicuranti: la patatina e la barretta. Nel caso della prima, non c’è alcuna necessità di far comparire la patata tra gli ingredienti. Nella seconda, il segreto è la compressione dei componenti.

I “granola bars”, in particolare, contengono una miscela vischiosa di fiocchi d’avena, noci, frutta secca, miele o sciroppo d’acero, qualche volta cioccolato. Sono considerate salubri e pertanto fornite come snack ai bambini in età scolastica e agli adulti salutisti in cerca di conferme affettive.

Ammetto che le ho mangiate anch’io, soprattutto nei primi tempi dopo il trasferimento. Poi i denti stavano per lasciarmi affondando nell’ultima barretta, attaccati saldamente a un ammasso al cocco che mi ha segnato per le merende a venire.

Chiudo l’elenco con il “mozzarella string cheese” perché, da italiana, lo trovo una scoperta di portata Copernicana.

Chi ha mai detto che la mozzarella dovesse essere tonda? E chi ha deciso che invece di servirla sul piatto non potessimo sbucciarla come una banana e mangiarla a passeggio?

I bastoncini, di una sostanza bianchiccio-gommosa, non contengono acqua e sono incartati singolarmente in una pellicola.

Se li avessero chiamati in un qualunque altro modo forse avrebbero avuto qualche chance anche da noi. Invece il nome, che in America rappresenta il punto strategico del marketing, ha chiuso per sempre le porte all’espatrio italiano.

Se un solo string cheese varcasse i nostri confini, ci sarebbero sommosse popolari nelle latterie, e gruppi inferociti su Facebook per bandirli dal suolo sacro della patria.

Perché in Italia la mozzarella è una di quelle poche certezze che ancora ci fanno illudere che nulla è cambiato e che l’essenza della felicità può condensarsi in un latticino. E per una certezza del genere vale senz’altro lottare.

 

[:]

Silvia Bajardi

Un’italiana nel Nuovo Mondo. E vabe’, ma allora ditelo che appena arrivo votate Trump. Non mi resta che il blog.

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