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Blue Whale: anzitutto, non chiamatelo “gioco”

Attenzione: non è una catena. Fate molta attenzione: i vostri figli sono in pericolo. Se li vedete connessi troppo tempo, a orari improbabili, se sono pure un po’ scortesi e assenti, potrebbero aver contratto un terribile virus che non lascia scampo e che si trova sul web. Ripeto: non è un catena, non è una bufala. Piuttosto, è una balena. Una balena blu, per l’esattezza.

Ebbene sì, la rete sembra aver pescato il cetaceo più letale della storia, un balena azzurra che manipola le menti degli adolescenti e li porta al suicidio.

Se vi suona vagamente allarmistico e un po’ surreale, tranquilli: lo è. Se i vostri figli stanno connessi da quando sono in culla eppure non vi sembra si siano beccati un virus: tranquilli, è normale pure quello.

Eppure, da qualche giorno in rete non si parla d’altro e lo si fa in termini che a volte rasentano la psicosi.

Ovviamente, non c’è davvero una balena nel vostro desktop né tanto meno nei cellulari. Meglio specificarlo in tempi di fake e troll, non si sa mai. Cosa c’è di vero allora?

Di vero, pare ci sia un gioco on line Blue Whale (Balena azzurra) che indurrebbe gli adolescenti che vi partecipano, al suicidio.

I ragazzini vengono contattati da un misterioso tutor che invia loro un hashtag per invitarli a giocare. Accettando, si devono eseguire 50 prove che vanno da tagli sul braccio a “maratone” notturne di film horror. L’ultima prova consiste nel raggiungere il tetto più alto della città e lanciarsi nel vuoto, filmandosi o facendosi filmare.

Il caso Blue Whale è diventato virale nel giro di pochi giorni in seguito a un servizio de Le Iene andato in onda domenica scorsa.  Il servizio indaga la questione partendo dal caso del suicidio di un ragazzino livornese, avvenuto a Febbraio, per finire in Russia, dove il fenomeno è nato da almeno un anno, forse più, e dove avrebbe già causato la morte di diversi adolescenti, decine, centinaia addirittura. Come un morbo incontrollabile, Blue Whale attacca ragazzini “normalissimi e non problematici” dice l’autore del servizio, Matteo Viviani, per trasformarli in depressi con manie suicide.

Ad avvalorare questa tesi, le interviste a due mamme, inquadrate in primissimo piano con tanto di musica struggente e montaggio alternato su spezzoni di filmati che riprendono il suicidio di ragazzi giovanissimi, senza risparmiare sui dettagli.

Insomma, tutto perfettamente conforme alle regole della famigerata “tv del dolore” versione young.

Ma si può davvero classificare la vita di un adolescente “normale e non problematica” solo perché nelle foto sorrideva sempre o perché si interessava a compiti di latino del giorno dopo?

Il servizio prosegue, spiegando che una delle menti del gioco, Philp Budeikin, è uno studente di psicologia di ventidue anni che avrebbe dichiarato di essere responsabile, non pentito, della morte di 17 ragazzine. Pare sia stato arrestato l’anno scorso ma l’inviato de Le Iene ci avverte: non siamo al sicuro. Ormai questi tutor sono ovunque, in Europa e quindi anche in Italia.

Fine del servizio.

Che fare dunque? Ovviamente, il web si è diviso.

Si passa dalla psicosi dei genitori, allo sfottò dei ragazzini, dalla demonizzazione di Internet, a una spiegazione categorica: “è tutto un problema di rapporti deficitari con i genitori”

Dov’è la verità allora? Forse nel mezzo, come spesso accade. E per trovarla basterebbe informarsi meglio, evitare servizi sensazionalistici e parlare di quello che si sa prima di dare opinioni.

In un articolo uscito sul Corriere della sera (http://www.corriere.it/tecnologia/cyber-cultura/cards/blue-whale-gioco-suicidio-che-molto-probabilmente-non-esiste/farsi-pubblicita.shtml)ad esempio, viene riportato un elenco preciso dei dati che finora si hanno sulla faccenda e che dimostrano la confusione che circola intorno a questa vicenda:

-Non si conosce il numero certo di ragazzini che si sono effettivamente tolti la vita in seguito a Blue Whale.

-Si sa però che esistono molti forum dedicati al suicidio dove può capitare che gli amministratori facciano girare immagini macabre e inneggianti alla morte, giochi cupi e pericolosi, per creare un circolo di morbosità che attira followers, like, numeri che loro possono riversare sulle proprie pagine e lucrarci sopra.

-Si sa che il 62 per cento dei suicidi giovanili in Russia è causato da problemi familiari.

-Si sa, infine, che molti adolescenti, di fatto, sono morti lasciando un’infinità di domande e dolore.

Insomma la faccenda è complessa e ancora oscura su molti punti. Quindi, ripensando al servizio de Le Iene, viene da chiedersi se sia corretto a livello etico, giornalistico e morale, imputare a un fenomeno ancora tutto da chiarire, una tragedia come il suicidio che rischia di essere sminuita nella sua complessità.

In tutto questo marasma, l’unica cosa che pare accomuni tutti, o quasi, è il termine “gioco” associato a Blue Whale. Così mi è venuto in mente che l’unico punto di vista che non avevo ancora indagato era quello di una persona che conosco e che gioca on line, che non è un giornalista, non è un adolescente, non è un genitore e non è uno psicologo: è una persona che conosce il mondo on line, il mondo dei forum. Una persona esperta del settore dei giochi on line che è un vero e proprio mondo.

Così l’ho contattato e quando gli ho chiesto “Che ne pensi di questa storia del gioco Blue Whale?” La prima cosa che mi ha detto è “Anzitutto perché lo chiami gioco?”

E qui, in effetti, le cose si sono fatte subito più chiare.

Chi gioca sa la differenza. Chi gioca davvero, sa dove finisce la realtà e dove comincia lo schermo.

Se scambi le cose non stai più giocando: non sta giocando chi è dall’altra parte dello schermo e non stai giocando tu. Se scambi le cose, forse non hai semplicemente contratto un virus, ma sei intrappolato in un fenomeno più profondo che non si passa con un hashtag.

E per andare in profondità, probabilmente bisogna far attenzione a quello che accade ai figli, ai genitori, a quello che succede on line, nella realtà e alle parole che si usano per definire le cose perché spesso le etichette sono il peggiore dei malware.

 

Enrica Orlando

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