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rivoluzione
“Attenzione: durante la March For Our Lives sabato 24 marzo 2018 le armi da fuoco non sono permesse a Pennsylvania Avenue e marciapiedi adiacenti, fra la Prima e la Terza strada, dalle sei del mattino alle otto di sera.” Negli Stati Uniti è talmente normale portarsi in giro una pistola, che il sindaco di Washington DC ha sentito il bisogno di affiggere un cartello con questo avvertimento. E’ un po’ ovunque lungo il percorso della “marcia per le nostre vite”, organizzata per chiedere leggi più restrittive sulle armi da fuoco dai ragazzi sopravvissuti della strage di Parkland, Florida, dove il mese scorso sono morti in diciassette, fra alunni e personale scolastico.
Con due amici e mia figlia di 11 anni ho trovato un posticino in mezzo alle 800000 persone che oggi stanno tutte pigiate come sardine davanti al Parlamento americano. Mi giro a guardare uno striscione vicino a noi per pochi secondi e Darleen, una sconosciuta, mi dice: “hanno sparato e ucciso mio figlio, siamo venuti qui per questo.” Non faccio in tempo a farle alcuna domanda, che è già sparita nella calca. Meno male che mia figlia non ha sentito, penso sollevata. “Mamma come si chiamava il figlio di quella signora?” mi chiede invece lei.
Sul palco arriva Naomi, che ha pure lei 11 anni, e una cascata di capelli afro: “Dicono che sono un burattino nelle mani di altri, che non posso avere pensieri miei su questo argomento perché sono piccola. Invece io sono qui perché voglio rappresentare tutte le donne afroamericane uccise dalle pistole, quelle le cui storie non arrivano mai sui titoli di giornale.” Un altro undicenne, di Brooklyn, New York, ricorda suo fratello grande, ucciso a quattordici anni con un colpo di pistola mentre tornava da scuola. “La nostra vita è cambiata per sempre, ma essere qui serve a farmi sentire meno arrabbiato, perché faccio qualcosa di concreto”. A parlare dal palco ci sono ragazzi che vengono da tutti gli Stati Uniti, ricordano i loro amici, fratelli e sorelle.
Ci son i ragazzi di Chicago, la città dove negli ultimi dodici anni sono morte 6000 persone a causa delle pistole, raccontano come il centro della loro città sia per i turisti, mentre appena fuori si muoia ogni giorno per colpa delle armi. Nelle parole di questi ragazzi c’è la fragilità del trauma, ma anche una forza d’urto potentissima. Noi grandi li ascoltiamo in silenzio, e siamo come gli assetati nel deserto a cui viene fatta bere una piccola goccia d’acqua: “benvenuti nella Rivoluzione”, dice uno. “Come mio nonno, anche io ho un sogno” urla con voce squillante una bambina simpaticissima, “sogno che nessuno debba avere paura di andare a scuola.” E’ la nipote di Martin Luther King. “Ci dicono che non contiamo nulla perchè non possiamo ancora votare, ma noi ci ricorderemo di tutti loro, dei corrotti che prendono i soldi della NRA, e appena potremo, li butteremo fuori dal parlamento”, ripetono quasi tutti. Una delle leader del gruppo di Parkland, Emma, la ragazza coi capelli rasati, rimane in silenzio per 6 minuti e 20 secondi davanti al microfono. Lacrime le rigano la faccia. Noi assistiamo sbalorditi. Quando la sveglia del suo telefono suona, scopriamo che abbiamo appena misurato il tempo che ha impiegato il killer per uccidere con il suo fucile d’assalto.
Oltre ai soliti assorbenti interni, spiccioli di varie valute, penne che non scrivono, la moleskine piccola per prendere appunti, i guanti, vari tipi di occhiali, due succhi di frutta alla mela, due panini puzzolenti mozzarella e pesto, un’arancia, la felpa se poi si alza il vento e fa freddo, un kindle e un numero imprecisato di altri frammenti di materiale non sempre identificabile, al peso della mia borsa si aggiunge quello della mano di mia figlia che un po’ ci si appende. Ci si appoggia con tutta sé stessa, soprattutto mentre ascolta il discorso di Matthew, dal Connecticut. La sorellina di Matthew aveva sei anni e stava preparando gli angioletti di zenzero per l’albero di Natale quando è stata uccisa nella sua scuola a Sandy Hook, poco più di cinque anni fa, insieme ad altri 20 bambini delle elementari. Sento il terrore di mia figlia nel sentire queste parole, la abbraccio un po’ e so che spesso in futuro penserà ancora alla sorellina di Matthew. Mi chiedo se ho fatto bene a venire qui con lei: è ancora così piccola.
Fra la borsa, mia figlia e la storia di Matthew, la mia spalla ormai sostiene una tonnellata intera. Arriva Edna, una ragazza latina di una zona disastrata di Los Angeles. Anche suo fratello è stato ammazzato mentre tornava da scuola. “Ricordatevi il mio nome. Ho imparato a schivare proiettili prima ancora di imparare a leggere. Ora sono una leader, mi impegno per sollevare la mia comunità. Fate lo stesso anche voi.” No. Ho fatto bene a venire con la mia piccola.
Ogni tanto fra un intervento e l’altro parte un video informativo, o una canzone dal vivo: da Miley Cirus ad Ariana Grande, le celebrities sono tante e la folla canta con loro. Certo, questi americani saranno anche pazzi con tutti i loro fucili, ma sanno mettere in piedi uno show degno di questo nome. E’ uno show che ti colpisce allo stomaco come un pugno. Il mio, e quello di tutti i presenti. Samantha, che è stata ferita a Parkland, ricorda i tragici minuti di carneficina nella sua classe dal palco. Oggi è il compleanno del suo compagno Nick, che le è morto accanto. Mentre parla, leggendo da un foglio di carta, per la tensione è assalita all’improvviso da conati di vomito. Si accuccia dietro il microfono. La folla ha il fiato sospeso. Il regista televisivo, rapidissimo, distoglie le telecamere, che inquadrano la folla dall’alto. Una volta liberatasi dal vomito, dopo pochi secondi Samantha si rialza e finisce il suo discorso. Sorride sollevata, felice di avercela fatta: “Wow, ho appena vomitato in mondovisione, ed è stato davvero grande!”. Welcome to the Revolution, benvenuti nella Rivoluzione.[:]
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