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La passione di Artemisia, secondo me

427 anni fa nasceva Artemisia Gentileschi, alcuni di voi dirannno: chi? Ma spero che altrettanti sgraneranno gli occhi e apriranno la bocca in un sorriso estasiato.

Artemisia Gentileschi è stata molte cose, figlia, donna, mamma, pittrice, rivoluzionaria, femminista, precorritrice di quello che oggi chiamiamo #metoo. Solo che allora lei era sola, senza platee dalla sua parte, casse di risonanza, manifestazioni e immersa in una società che vedeva la donna sempre e comunque colpevole, tentatrice incapace di trattenere i suoi istinti più animaleschi (ah, dite che la situazione non è cambiata molto? Bè, dopotutto sono passati solo 400 anni, c’è tempo per migliorare).

La sua è stata una vita da romanzo (e infatti ce n’è uno bellissimo, che si intitola La passione di Artemisia, scritto da Susan Vreeland e pubblicato da Neri Pozza), io l’ho scoperta tanti e tanti anni fa e me ne sono appassionata. Così tanto da aver pensato per lungo tempo di chiamare mia figlia con il suo nome.

Artemisia Gentileschi è una donna di cui tutte dovremmo conoscere la storia. Lei, violentata dal suo “maestro”, colui che si sarebbe dovuto curare della sua formazione e che invece ne approfittò nella peggiore delle maniere. Così scrisse la stessa Artemisia, in un racconto crudo e agghiacciante di quello che fu il suo stupro:

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne» *

Ne seguirono il tentativo di un matrimonio riparatore e un processo lungo, sfiancante, umiliante in cui la nudità più estrema di Artemisia fu messa in mostra a tutti, a questa tortura mentale non mancò quella fisica con le dita lacerate per farla confessare l’invenzione dello stupro. Lei però fu una delle prime donne a far condannare il proprio stupratore.

Tutta la sua forza, la sua rabbia e la sua bellezza si sono riversate nella pittura. Lei è stata la prima donna ammessa all’Accademia di Firenze, ebbe commissioni dal Papa, dai Nobili più in vista dell’epoca, ha avuto mecenati a Napoli, Firenze, Roma, Genova e persino Londra.

Dobbiamo essere grate ad Artemisia Gentileschi, quando pensiamo di non farcela, di non essere abbastanza forti, di non avere i mezzi per battere gli uomini che vogliono zittirci, superarci o peggio ancora violentarci, pensiamo a lei. Pensiamo a una donna di inizio ‘600 in lotta col mondo, pronta a subire trattamenti vergognosi pur di vedere ripulito il suo nome. E poi pensiamo che da tutta questa rabbia, lei ha creato forse il suo più grande capolavoro, quella Giuditta che decapita Oloferne oggi esposto agli Uffizi.

Quindi, uomini, quando pensate di poter trattare una donna come se fosse un oggetto di vostra proprietà ricordatevi di Artemisia.

E di Giuditta.

 

* tratto da Davide Pascarella, Artemisia Gentileschi, l’arte e lo stupro

 

Silvia Garda

Scrivo, faccio cose, cucino, ho due figli, un gatto, un compagno. Non per forza tutto in questo ordine.

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